Lontano dal rumore.

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«Cavolo!» esclamò Cameron, togliendosi il giubbotto. «Sembra passata una vita dall'ultima volta che sono stato qui.» Uno strano sorriso malinconico fece capolinea sul suo viso mentre, guardandosi attorno in modo spaesato, svuotava le tasche nel porta oggetti.

Gli avevo visto compiere quegli stessi gesti un'infinità di volte prima che mi trasferissi; lui arrivava, lasciava tutto all'ingresso e poi mi aiutava a imballare le scatole. Eppure, osservandolo, provai una sensazione che non riuscivo a spiegare. Non possedeva una descrizione che gli rendesse giustizia, né poteva paragonarsi ad altre.

Quella non era più casa mia. Pomeriggio dopo pomeriggio avevo metabolizzato il fatto di non riuscire più a immaginare di tornarci a vivere, non senza Jane e Cameron. Tuttavia rimaneva un luogo importante, lo sarebbe stato per sempre, ed essere di nuovo lì, insieme a lui, mi faceva sentire tremendamente bene.

«Già», convenni, regolando i riscaldamenti. «Invece non è passato nemmeno un mese.»

Indirizzò gli occhi verso il soggiorno, poi li spostò lungo il corridoio. «È tutto uguale?» domandò, ma non aspettò risposta. Andò a controllare di persona, e io lo lasciai fare.

Rigirai le chiavi tra le dita, consapevole che da lì a qualche giorno le avrei riposte nel cassetto, in attesa di capire cosa ne avremmo fatto realmente di quella casa. Poi le abbandonai dentro la borsa e mi tolsi le scarpe.

Il pavimento sotto ai miei piedi era gelido, e mentre attraversavo la porta della cucina l'idea di mangiare un gelato, quando non riuscivo nemmeno a togliere la giacca, mi parve assurda. Ciononostante mi avvicinai al freezer, intenzionata ad andare avanti nel recitare la parte di una Charlie che desiderava ardentemente divorare il contenuto della vaschetta appena tirata fuori dal frigo, piuttosto che ammettere di averla usata come scusa per invitare Cameron in un posto in cui non abitavo più. Il che era piuttosto palese, ma preferivo non rimuginarci su.

«Perché la porta della tua stanza è chiusa a chiave?»

Girai il viso, ancora con le mani dentro il cassetto delle posate. «Certo che hai un brutto vizio», lo canzonai. «Sempre a tentare di entrare in camera mia.»

Non lo guardavo più, ma sapevo si stesse avvicinando dal rumore dei suoi passi, e ne ebbi la certezza quando appoggiò il petto alle mie spalle e il suo respiro mi riscaldò il collo. «Però oggi ho bussato», disse, e quasi non mi accorsi di non avere più due cucchiai in mano, bensì solo uno. «In ogni caso non mi hai ancora detto perché è chiusa.» Ritornò sull'argomento, tirandosi indietro.

Quando mi voltai stava già aprendo il contenitore sul tavolo. «Perché è vuota», spiegai. «Se questa prova con i turisti andrà bene, probabilmente mio padre comprerà un letto e lo metterà lì. In ogni caso, non sarebbe male se bussassi più spesso. Sai com'è...» Gli passai davanti, appropriandomi del dolce. «Esiste una cosa chiamata privacy.» E con un gesto del capo lo invitai a seguirmi in soggiorno.

«Davvero? E cos'è?» mi prese in giro, stravaccandosi sul divano.

Gli feci una smorfia, prendendo posto accanto a lui. «Forse dovrei spiegartelo seriamente.»

«Eh sì», ribatté con mezzo sorriso. «Così ci rinfreschiamo entrambi la memoria.»

Inarcai un sopracciglio e avvicinai a noi il tavolino, sistemandoci sopra la vaschetta. «Io non ho bisogno di rinfrescarmi la memoria. Non sono mai entrata in camera tua senza chiederti il permesso!» Tentai di affondare il cucchiaio nel gelato, ma era ancora troppo freddo e non riuscii a prenderlo. «Mi sa che dobbiamo aspettare un po'», sbuffai, arricciando il naso.

Cameron mise la sua posata sul coperchio, poi poggiò un gomito sul bracciolo e mi osservò divertito. «Comunque non mi riferivo al bussare.»

«E a cosa?»

Under the same roofDove le storie prendono vita. Scoprilo ora