Vernice blu

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La detenzione era un posto magico, singolare, dove gli insegnanti stabiliscono con quale attività torturare i propri studenti, al fine di far scontare loro una pena che, talvolta - come nel mio caso, s'intende -, non meritavano.

Aiutare a dipingere la scenografia per il musical " Notre dame de Paris " era la mia punizione. E se non fosse stato per la professoressa Mitchell, per la sua presenza opprimente che riusciva a trasformare l'aula di teatro in un girone dell'inferno, probabilmente mi sarebbe piaciuto stare lì.

Invece mi ritrovavo a pensare che avrei preferito di gran lunga togliere chewing-gum fossilizzati da sotto i banchi, anziché trovarmi in quel posto.

Purtroppo per me, però, non avevo voce in capitolo. Quindi me ne stavo seduta sul parquet, dietro le quinte, con una sagoma a forma di P e un pennello già sporco di vernice tra le mani, rassegnata al mio destino.

I detenuti non erano tanti, ma quelli presenti non si azzardavano a fiatare, e nell'aria c'era una sorta di tranquillità. Un silenzio assoluto che venne squarciato brutalmente dallo sbattere della porta antipanico. Ci voltammo tutti verso l'ingresso a causa del rumore.

«Signor Martin, alla buonora!»

Il rimprovero non lo scalfì nemmeno, gli scivolò addosso come se avesse un impermeabile invisibile, ma la sua risposta, quella che vedevo già arrivare per via di quel sorrisetto impertinente, non avrebbe avuto la stessa reazione sulla nostra docente.

«Professoressa, l'attesa aumenta il desiderio. Dovrebbe saperlo.»

Le risate dei nostri compagni fecero storcere il naso alla Mitchell, che se avesse potuto ci avrebbe inceneriti con lo sguardo uno a uno. «Un'altra delle sue battute infelici, Martin, e si presenterà qui anche domani. Prenda qualcosa da dipingere e si metta seduto. Da questo momento in poi non voglio sentire una sola mosca volare.»

Cameron alzò le mani in segno di resa, pressando le labbra tra loro, poi andò a scegliere il suo materiale. Scossi la testa, disapprovando la sua uscita, e mi concentrai sul mio lavoro.

Almeno finché un paio di Nike bianche non comparvero nella mia visuale, costringendomi ad alzare gli occhi verso il mio tormento personale. Lui si mise seduto, poggiando la sua A di cartone sul pavimento, e tirò a sé il mio barattolo di vernice.

«Cameron», pronunciai il suo nome con esasperazione. «Tra tutti i posti, perché qui?»

Alzò le spalle, e portando l'indice alle labbra mi intimò di fare silenzio. Proprio lui, che di stare zitto non ne era affatto capace. Ed era quello che mi spaventava! Era per quel motivo che non volevo si sedesse lì, vicino a me. Perché lo conoscevo abbastanza da sapere che non se ne sarebbe stato così buono, come invece faceva credere con quella sua finta faccia d'angelo.

«Reed, smettila di guardarmi come se volessi uccidermi. Altri due minuti così e rischi di diventare strabica. Lo dico per la tua salute, lo sai.»

Sollevai le sopracciglia. «Sei un cretino.»

«In realtà mi sono messo qui perché volevo chiederti una cosa», bisbigliò Cameron, sporgendosi con il busto dalla mia parte, stando attento a non macchiarsi. «Sai qualcosa della cena di domenica?»

La famigerata cena di cui mio padre parlava da almeno una settimana. Avrei dovuto - voluto - sapere qualcosa, ma John Reed certe volte si comportava in modo strano. Non riusciva a tenersi i segreti, non poteva nemmeno nascondere il regalo per il mio compleanno o una sorpresa qualsiasi perché diventava ansioso, incapace di aspettare il momento adatto. Si faceva sgamare subito. Ma quella volta, nonostante trasudasse agitazione da ogni parte del suo corpo, aveva tenuto la bocca inesorabilmente chiusa.

Under the same roofDove le storie prendono vita. Scoprilo ora