Seconde possibilità.

1.9K 67 84
                                    

«Cameron?»

La voce calda di William Martin uscì dall'altoparlante del cellulare, e riempì di preoccupazione l'abitacolo della macchina. Probabilmente, suo figlio era l'ultima persona al mondo da cui si aspettava di ricevere non una, bensì cinque chiamate andate a vuoto.

«La mamma sta bene? Hai bisogno di qualcosa?»

Cameron tirò il freno a mano, e afferrò il telefono dalle mie dita, togliendo il vivavoce. «Non è per noi che ho chiamato», mise in chiaro, osservando con un'espressione imperscrutabile l'insegna rossa dell'edificio che gli stava di fronte. «Ho appena lasciato la nonna e Allie davanti l'ospedale. Le si sono rotte le acque mentre ero da loro. Adesso ti mando la posizione.»

Il volume era così alto che riuscii a sentire l'imprecazione di William, e persino ciò che disse dopo: «Mi ci vorranno almeno venti minuti per arrivare. Stai tornando a Providence?».

Scossi la testa ancor prima che Cameron si girasse a guardarmi in cerca di approvazione. Avevamo visto entrambi Allie entrare nel panico e annegarci dentro, l'idea di mollarle lì da sole non era stata neppure contemplata. Da nessuno dei due, o non si sarebbe preoccupato di trovare un posto libero in cui parcheggiare.

«No», gli rispose. «Rimango finché non le raggiungi.» Non aspettò che suo padre dicesse altro, chiuse la chiamata e scese dall'auto come se non sopportasse più l'aria al suo interno, appoggiandosi successivamente alla portiera.

Per un momento rimasi a fissargli la schiena, poi mi decisi e lo seguii fuori. «Vuoi entrare?» chiesi, sperando di non ottenere in cambio un'occhiata assassina.

Ma non mi guardò affatto in quel modo. Trascinò lo sguardo da me all'ospedale, fece un sospiro di pura frustrazione e annuì.

Non saprei quantificare il tempo che passammo in silenzio una volta seduti nella saletta d'attesa, ma fu abbastanza da farmi capire quanto si sentisse a disagio.

Sapevo che quell'assenza di dialogo non dipendeva da me, bensì dalla consapevolezza che da lì a poco avrebbe visto suo padre, colui che aveva evitato in tutti i modi possibili. Eppure provai una sorta di crampo allo stomaco. Non avevo idea di come comportarmi. Me ne stetti immobile per un po', finché non mi ricordai della sera in camera sua.

«Erano questi i tuoi secondi fini, eh?»

Cameron si girò immediatamente dalla mia parte. «Cosa?» la voce gli uscì roca, e nella sua espressione ci fu così tanta di quella confusione da farmi sorridere.

«I secondi fini di cui parlavamo ieri notte», spiegai. «Credevi che non ci sarei arrivata? Certo, non pensavo proprio che mi avresti portata qui, ma è originale. Così se mi viene un attacco di tachicardia siamo nel posto giusto.» Sì, lo avevo detto sul serio.

Ma non ebbi modo di pentirmene, perché Cameron gettò indietro la testa e si mise a ridere. Sdrammatizzare, con lui, funzionava davvero.

«Mi sento sollevato, Reed. Non ero sicuro che l'avresti trovato così eccitante, per questo ho finto che fossimo qui soltanto per Allie. Però mi hai scoperto, quindi ti dirò la verità. Avevo in mente un bel giretto tra i reparti, magari mentre mangiamo schifezze prese dal distributore automatico. Poi leggiamo un paio di cartelle cliniche e ci facciamo sbattere fuori per violazione della privacy.»

«Addirittura meglio del drive-in!»

Annuì con fierezza. «A quanto pare sono il genio degli appuntamenti», ammiccò. «Sai quanti ne ho organizzati fin ora?»

Scossi la testa. «Non sono convinta di volerlo sentire, Cam. Mi basta sapere che hai trovato lo scopo della tua esistenza grazie a me.»

Mi sorrise di nuovo, e sul suo viso sembrò tornare quell'aria giocosa che aveva perso a casa dei suoi nonni. «Di solito non sono argomenti di cui bisogna parlare quando si esce con qualcuno? Per conoscersi meglio?»

Under the same roofDove le storie prendono vita. Scoprilo ora