Immersa tra gli scatoloni, in una versione stile campo da combattimento della mia camera, osservavo, sdraiata sul mio letto, il soffitto bianco.
Ero stremata, sveglia dalle sei del mattino e sporca di nero sulle mani a causa del pennarello utilizzato per distinguere i colli. No, non ero impazzita. Faceva tutto parte di un piano ideato il giorno prima, mentre me ne stavo seduta sulla sedia in pelle nera di Sandy a prendere appuntamenti e salutare i pazienti. L'obiettivo era quello di impressionare, impietosire e arrivare al cuore di mio padre in modo da diminuire la mia pena. Tipo una buona uscita, sì. Avevo trovato solo tre soluzioni: sgobbare per il trasloco, preparargli una torta e, per ultimo, chiedere appoggio morale a Jane.
Il piano, sicuramente fallimentare, era nato da un messaggio di Simon Parker per cui mi ero sbattuta una mano in fronte e lanciato maledizioni verso me stessa. Avevo letto la notifica così tante volte da sapere a memoria il testo: "Siamo sempre d'accordo per stasera? Magari passo a prenderti prima e ceniamo insieme?".
Ero stata Io a chiedergli di rimandare a sabato e, con tutto quello che era successo, me n'ero dimenticata. Impiegai del tempo per rispondergli; cercavo le parole adatte poiché credevo che, rifiutando per la seconda volta, avrei bruciato ogni possibilità di uscire con lui. Non volevo andasse così; procurarmi un biglietto di sola andata per "mai più" non era tra i miei desideri. Così gli dissi la verità: scrissi che ero in punizione – omettendone il motivo – e mi dispiaceva davvero tanto dovergli dire di no.
Simon visualizzò subito ma non rispose con altrettanta velocità; quando lo fece, però, capii di essermi preoccupata inutilmente: "Punizione? Che hai combinato? Non è una scusa per liberarti di me, vero?"
"Assolutamente no! Mi farò perdonare, giuro. "
Fu proprio a causa delle mie stesse parole che mi si accese la lampadina in testa ma non avevo considerato parecchie cose, tra cui la pesantezza di dedicarmi al trasloco, di togliere tutte le foto attaccate al muro, liberare le mensole e rendere la mia camera come un albero in autunno: spoglia. Avevo inscatolato tutto l'amore e i ricordi con cui, negli anni, l'avevo addobbata.
Ma quello era solo l'inizio, una piccola parte, un ramo soltanto.
Quasi balzai dal letto quando udii il suono del campanello e realizzai che, oltre Jane, quel giorno a pranzo c'era anche Cameron. Lasciai che fosse mio padre ad aprire loro la porta, colta da un'improvvisa morsa allo stomaco.
Avevo dato per scontato, quando la sera prima papà mi aveva informata che sarebbero venuti da noi, che non ci avrei fatto caso.
Alla fine cos'era un bacio? mi ripetei, ma la mia risposta cambiò nel sentire il suono della voce di Cameron salutare mio padre e ridere per chissà cosa.
Allora cos'era? Era il motivo per cui stavo inciampando nelle mie emozioni: ansia e preoccupazione, dacché un passo avanti alle mie scarpe rovinate dalla vernice, rendevano impossibile il passaggio tra quello che pensavo e quello che invece avrei dovuto fare; ovvero comportarmi in modo totalmente normale perché, in fin dei conti, non era successo niente.
«Ciao Reclusa», trasalii, ovviamente, incapace di mantenere un certo contegno. Andai a sbattere contro uno scatolone, sollevai una mano in segno di saluto e deglutii saliva e imbarazzo insieme.
«Stai bene?» Mi chiese, divertito e stranito allo stesso tempo.
«Certo», commentai, spostando con la gamba la scatola di lato, «Una favola». Proprio.
Lui annuì, visibilmente poco convinto. Spostò lo sguardo sulle mie scarpe e per un momento, un solo unico istante, parve dispiaciuto. Poi, fece mezzo sorriso e pensai di essermi immaginata tutto. «Sono le scarpe della detenzione?»
«Sì», feci una smorfia, osservandole: la macchia blu si era estesa quando quel giorno avevo provato a lavarla via, rendendo il bianco immacolato attorno ad essa di una sfumatura azzurrina. Completamente rovinate, ma non ero riuscita a liberarmene e avevo deciso di utilizzarle in altri modi, trasloco incluso. «Non dire una parola», lo minacciai puntandogli il dito contro, quando vidi che era già pronto con una delle sue battute ed il sorrisetto beffardo. Però, in qualche modo il suo essere così normale mi aiutò ad affievolire le emozioni provate poco prima e quel groppo allo stomaco scomparve quasi del tutto.
Alzò le mani in aria, poi la busta appoggiata sul mio comodino gli saltò agli occhi. L'afferrai, porgendogliela. «Sono i tuoi vestiti», gli dissi, ma lui lo sapeva perché la trasparenza della plastica gli aveva già mostrato il contenuto.
«Vado a salutare tua madre», lo informai passandogli accanto.
«Charlie», mi afferrò per il braccio. «Aspetta un attimo», le mie irridi nocciola si scontrarono con le sue, più azzurre che mai. Lasciò la presa quando abbassai gli occhi sulla sua mano.
«È tutto apposto? Tra di noi, intendo».
«Non dovrebbe?», le parole mi uscirono dalla bocca con una tale sicurezza da stupire anche me stessa quando continuai a parlare. Guardai la porta lasciata aperta, assicurandomi che non ci fosse nessuno, poi riportai gli occhi nei suoi. «Se ti riferisci a venerdì, Cam, è stato solo un bacio, no?»
Non so se dissi quelle parole per avere una conferma o solo per troncare quel discorso ma ottenni comunque entrambe le risposte.
«Certo», annuì con forza, «solo un bacio», confermò.
«Abbiamo anche detto che non ricapiterà più, quindi-», mi interruppe.
«In realtà, Reed, quello l'hai detto tu». Puntualizzò, cambiando completamente espressione. La serietà che fino a quel momento aveva contornato il suo viso, lasciò spazio alla versione più giocosa di Cameron. «Ma se dovessi cambiare idea», protese le labbra più volte, «io sono qui», e detto ciò strizzò l'occhio.
Mi portai una mano sulla fronte scuotendo la testa. «Non ti smentisci mai». Non riuscii, però, a non sorridere sentendomi leggera, mentre ansia e preoccupazione scemavano del tutto.
Cameron scrollò le spalle, mi fece cenno di uscire dalla stanza, seguendomi fino in cucina.
A pranzo, l'argomento principale trattava l'organizzazione del trasferimento: Papà e Jane avevano scelto le loro vittime sacrificali, tirando fuori uno schema a livelli del football, che vedeva me come giocatrice principale, poiché, data la mia reclusione forzata, avrei avuto più tempo libero rispetto agli altri. A seguire c'era Cameron, come se la mia punizione si fosse riversata su di lui, costretto a passare i pomeriggi dopo scuola insieme alla sottoscritta, e Jane che finito il turno da ausiliare in ospedale, ci avrebbe raggiunti per aiutarci.
Papà, invece, era il giocatore in panchina: faceva squadra, ma entrava in campo solo quando possibile.
Il mio piano, comunque, si rivelò davvero un totale fallimento. Lo capii quando una sera, portando la torta preparata con tanto amore a tavola, mio padre mi prese in giro dicendo che, se avessi continuato in quel modo, in due settimane sarei diventata un'ottima pasticcera.
Non ascoltò nemmeno Jane e non si impietosì quando, con fare da adolescente sconsolata, mi accasciai accanto a lui sul divano, mentre Cameron usciva da casa mia per incontrare Tyler, Lucas e Brad, con cui dopo la sera di Halloween avevano creato un solido gruppetto, dove vi erano state incluse anche Brooke e Jennifer. Sentendomi ignorata mi arresi al destino da prigioniera e quello che sembrava il patibolo divenne, paradossalmente, la parte piacevole di quelle settimane. Perché, in fondo, la compagnia di Cameron non mi dispiaceva affatto. Passare tutto quel tempo insieme a lui, pomeriggio dopo pomeriggio, fece scorrere il tempo in modo più veloce. L'episodio di Halloween era stato completamente archiviato; non c'erano state frasi o comportamenti ambigui ed io non avevo più provato quel tipo di sensazione.
Almeno fino all'ultima sera in casa mia.
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Under the same roof
Teen FictionCharlotte Reed, trasparente come l'acqua cristallina e drammatica come un'attrice di teatro, non è assolutamente pronta ai cambiamenti che le si paleseranno nel mezzo dei suoi diciassette anni. In particolar modo, non è preparata alla proposta di su...