I sentimenti di Jessica

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La sensazione di aver sbagliato nei confronti di Simon non arrivò subito, no. Avevo tanti, troppi pensieri per la testa e uno di questi stava a tre porte di distanza dalla mia camera.

Anzi, stavano tutti lì.

Da quando avevo aperto gli occhi, esattamente dieci minuti dopo averli chiusi, infastidita dai primi raggi solari, mi ero resa conto di non poter davvero dormire.

Non era solo per via dell'eccitazione o perché sentivo ancora la pressione delle sua labbra sulle mie; io mi torturavo e maledicevo per avergli sfilato la maglia!

Quel momento si ripeteva senza sosta, pronto a tormentarmi non appena provavo ad abbassare le palpebre. Rimaneva impresso lì, nel buio.

Più cercavo un modo per giustificarmi, qualora avesse tirato fuori l'argomento – e lo avrebbe fatto – più ne usciva fuori qualcosa di simile all'arrampicarsi sugli specchi e cadere, rovinosamente e dolorosamente, a terra.

Persa com'ero nel bosco della vigliaccheria, se il citofono non avesse preso a suonare – disturbando la linea dei miei pensieri –, sarei rimasta con piacere nella mia camera fino al rientro dei nostri genitori.

Sicuramente non era la più saggia delle idee, anzi la definirei piuttosto infantile, ma davo la colpa a quel groppo allo stomaco: agitazione allo stato puro. Una sensazione decisa ad aumentare a ogni passo compiuto verso la porta, fuori in corridoio e giù per le scale. Non riuscivo a capire se si trattasse di ansia o ci fosse dell'altro, forse un po' di curiosità.

Difatti non riuscivo a non chiedermi che tipo di approccio avrebbe avuto nei miei confronti quella mattina.

Il campanello suonò nuovamente, accompagnato dalla suoneria del mio cellulare. Mi ci volle meno di un secondo a capire chi ci fosse dietro il cancello: Jessica.

«Dammi il tempo», risposi al cellulare mentre pigiavo il pulsante per aprirle. Mi appoggiai alla porta, fingendo uno sguardo severo. Ero già pronta a dirle quanto fosse impaziente, e che la odiavo per avermi buttata giù dal letto; ma una volta arrivata davanti allo zerbino le bastò sollevare di poco il viso per farmi drizzare la schiena.

Le parole si fermarono sulla punta della lingua e le ingoiai di colpo, perché di fronte ai suoi occhi lucidi, a quelle guance solcate da lacrime e mascara, una cosa era certa: non c'era alcun filo da disinnescare, la bomba era scoppiata.

Mi diede solo il tempo di chiudere la porta, poi mi fu addosso stringendosi a me come se potessi scappare da un momento all'altro. Sospirai, accarezzandole dolcemente i lunghi capelli biondi mentre le sfilavo alcune ciocche incastrate nel giubbotto.

Non le chiesi nulla, la conoscevo abbastanza bene da sapere di non doverlo fare. Il giorno prima mi aveva detto di non poter essere sincera, di non insistere e non l'avrei fatto.

«Chi ha suonato?» La voce di Cameron mi arrivò dritta alle orecchie, e risuonò come un allarme quando Jessica si irrigidì tra le mie braccia.

Alzai gli occhi verso le scale, scuotendo con decisione la testa. Cercavo di fargli capire, attraverso il labiale, di non scendere un altro gradino. Il suo sorriso si chiuse in una linea sottile e sollevò le mani a mezz'aria annuendo in modo comprensivo prima di risalire su.

Afferrai la mia amica per le spalle. «Ho appena cacciato Cameron da questo piano, pensi che me la farà pagare?» Non era l'approccio che avevo immaginato, ma almeno Jessica non piangeva più.

Mandarlo via, però, era stato inutile considerato che pochi minuti dopo avevo trascinato Jessica in camera mia. Approfittammo del letto sfatto per metterci sotto le coperte, strette l'una all'altra, e mentre io mandavo un messaggio a Cam, dandogli campo libero, lei me ne metteva sotto il naso un altro. «Leggi questo, dopo ti spiego tutto.»

Under the same roofDove le storie prendono vita. Scoprilo ora