Un sospiro dopo l'altro - seconda parte.

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Non pensare, mi dissi. Apri quella porta e basta.

Ma più cercavo di eclissare il motivo per cui me ne stavo impalata davanti all'ingresso con il cuore a mille, e meno riuscivo nell'impresa.

Avevo rimandato il confronto con Jane per un'ora intera. Tempo che avevo trascorso a confidare tutto nei minimi particolari alla mia migliore amica, pur di sfogare sentimenti che non potevo più tenere unicamente per me.

Adesso, però, era arrivato il momento di raccogliere un po' di coraggio e chiedere scusa. Ma tra il dire e il fare c'era di mezzo un profondo abisso, e io rischiavo di scivolarci dentro con tutte le scarpe.

Avevo paura di sbagliare ancora, di non trovare il modo giusto di approcciarmi con lei. Perché dialogare con Jane era sempre stato facile, ma questo era prima. Prima che scombinassi l'equilibrio della nostra famiglia, prima che rovinassi un rapporto basato sulla fiducia reciproca. Fiducia che avevo tradito nel peggiore dei modi, e che temevo fosse difficile da riconquistare.

Sospirai rumorosamente e rigirandomi il mazzo tra le dita, separai la chiave del cancello da quella di casa. Trattenni quest'ultima tra i polpastrelli, e quando mi decisi a infilarla nella toppa, la porta si aprì dall'interno facendomi sobbalzare.

Cameron si bloccò sull'uscio. Le pupille avevano quasi divorato l'azzurro delle sue iridi a causa dello stupore, e io sentivo di possedere la sua stessa espressione.

«Te ne vai?» fu una domanda assai stupida, era ovvio che se ne stesse andando. Ciò che avrei voluto davvero chiedergli era dove. Perché lo zaino che teneva in spalla era lo stesso che utilizzava le rare volte in cui si fermava a dormire fuori.

«Sì», rispose, senza fornirmi altri dettagli. D'altronde non doveva affatto rendermi partecipe dei suoi spostamenti dacché, salendo in macchina con Jessica alla fine della detenzione, avevo fatto la mia scelta.

Cameron schiacciò il palmo della mano contro la porta, aprendola maggiormente, e io mi feci da parte per farlo passare. Rimasi a fissarlo mentre si allontanava, non tanto allungo da vederlo entrare in auto, ma abbastanza da capire che nonostante i miei occhi addosso non si sarebbe voltato indietro neppure per un secondo.

Non appena varcai l'ingresso di casa, richiudendomi la porta alle spalle, udii la voce di Jane.

«Cameron?» chiamò dalla lavanderia, e un attimo dopo la sua figura comparve oltre il cornicione di quella stanza. «Hai dimenticato qualc-» tacque immediatamente, resasi conto dell'errore.

«Sono io» le mostrai il palmo, in segno di saluto. Il più ambiguo che le avessi mai rivolto. «Scusa se ho fatto tardi», le dissi, liberandomi del giubbotto.

Lei scosse la testa. «Ho ricevuto il tuo messaggio.»

«Ti...» mi tirai le maniche fino a coprirmi i palmi, tenendo il tessuto fermo tra le dita. «Ti serve una mano?»

Jane mi guardò smarrita, come se non riuscisse a capire a cosa mi stessi riferendo. Le indicai l'enorme cesta piena di vestiti che reggeva tra le braccia con un cenno del capo, e lei abbassò gli occhi sull'oggetto in questione, quasi si fosse dimenticata di quel peso.

«Sì», disse annuendo. «Sì, mi faresti un grandissimo favore.»

Feci appello a ogni residuo di coraggio che mi era rimasto e mi avvicinai a lei. Piccoli passi verso la donna che, forse, non sarebbe più riuscita a guardarmi con lo stesso amore che pochi giorni prima avevo visto riflettere nelle sue pupille. Probabilmente era quella la mia più grande paura nei riguardi di Jane.

Poggiò la cesta sul tavolino posto davanti al divano, e iniziò a piegare i vestiti, dividendoli per appartenenza. Afferrai uno dei miei maglioncini, replicando con cura i suoi gesti finché non capii che non avrei mai trovato le parole che stavo disperatamente cercando da ore.

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