CAPITOLO 26 - NATHAN

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La luna illumina la poltrona ampia su cui sono seduto solo per metà, tutto il resto è completamente avvolto dal buio.

Faccio roteare lentamente il liquido ambrato che riempie l'ultimo superstite dei bicchieri di vetro posizionati sul mobile bar del mio salone. Non sento niente.

Quando sono rientrato a casa la rabbia mi rimescolava il cuore e lo stomaco in un vortice troppo difficile da gestire, mi sono diretto in palestra come un folle e ho devastato il sacco che pende al centro della stanza fino a quando le mani non hanno iniziato a chiedermi pietà. Avrei di gran lunga preferito fosse mio padre.

Ho lasciato che le nocche rotte si scontrassero più volte contro l'attrezzo nonostante il sangue avesse iniziato lentamente a sporcare ogni cosa. Ho lasciato che il dolore fisico diventasse più forte di quello che mi stringeva il petto e mi sono fermato solo quando, per la troppa stanchezza, il fiato non mi sosteneva più. Il dolore e la rabbia, però, erano ancora lì, immutati.

Sono uscito dalla palestra e sono tornato in salone. Mi sono guardato attorno per un po', tutto mi sembrava così calmo e in ordine da turbare il caos che mi annebbiava la mente. Mi sono avvicinato tranquillo al mobile bar e ho tirato giù tutti i bicchieri con un unico movimento. Il rumore del vetro infranto sul pavimento ha riempito la stanza. Ho guardato le schegge sparse un po' ovunque e ho sorriso. Ho trovato ironico il fatto che fossero quasi lo specchio di come mi sento.

Ho dato una rapida occhiata alle mie mani ancora sanguinanti, poi ho preso la bottiglia nuova di rum che quello stronzo di Andrew mi ha regalato al mio ultimo compleanno. L'ho aperta e ho afferrato l'unico bicchiere rimasto ancora illeso sul bancone.

Ho bevuto un bicchiere, due, tre, forse cinque. Ho perso il conto. Ho bevuto fino a quando la rabbia si è affievolita, il dolore sedato e il silenzio si è trasformato in una melodia rassicurante. Ho bevuto fino a non sentire più niente.

L'alcol mi ha accolto, rassicurato e consolato. Ha reso l'incontro con Andrew e Beth un ricordo lontano nonostante le poche ore trascorse, mi ha confessato che forse è lui l'unico vero amico che mi resta.

In verità l'incontro con quello stronzo stava andando meglio di come me l'ero immaginato.

Gli ho raccontato di mio padre, della bambina dagli occhi azzurri nella sala d'attesa, del momento esatto in cui sono andato fuori di testa. Gli ho raccontato ogni dettaglio a cuore aperto e per un attimo, uno solo, ho persino pensato che chiedere aiuto, come spesso mi ha consigliato di fare, fosse la scelta giusta. Per un attimo ho creduto che parlare fosse meglio della rabbia, della violenza e anche della solitudine che adesso si diffonde attorno a me.

Mi ha ascoltato con attenzione, ha assorbito ogni parola alla ricerca di una spiegazione che non esiste, ha cercato di farmi calmare, di spiegarmi che la vendetta non porta da nessuna parte e che picchiare mio padre fino a ucciderlo rendendo un'altra bambina orfana come me non mi avrebbe fatto sentire meglio. Non mi è bastato.

Il problema è che lui è nato e cresciuto in una famiglia talmente normale da essere perfetta. Ogni suo passo è stato seguito, ogni suo successo condiviso, ogni suo dolore spartito perfettamente a metà con Elizabeth. Nessun vuoto da colmare, nessun silenzio da distruggere, nessuna rabbia da sfogare. Non un istante in cui si sia sentito come me, quindi no, lui non può capire.

Non che volessi essere compatito, sia chiaro, volevo semplicemente essere ascoltato. Dimostrare a me stesso che nonostante il mondo sembrava cadere a pezzi avevo una persona su cui contare, volevo mettere a tacere la parte di me che continuava a ricordarmi, insistentemente, che non mi resta nient'altro che una casa vuota e una famiglia distrutta. Volevo annientare il muro che io stesso ho creato, lasciarlo entrare per una maledetta volta e farmi aiutare.

Profondi come il mareDove le storie prendono vita. Scoprilo ora