CAPITOLO 21

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2 aprile 1877

Il giorno era infine arrivato. Dopo una lunga pianificazione, Natasha era pronta; dall'esito della "Operazione Posta" - Luka l'aveva chiamata così in un momento di euforia - sarebbe dipesa la loro fuga. Non potevano esserci errori di distrazione, tutto doveva essere svolto in maniera impeccabile, la ragazzina lo sapeva bene. Alle quattro in punto del mattino Natasha lasciò il suo dormitorio. Un po'troppo presto, ma poco le importava. Non era riuscita a chiudere occhio quella notte, anche se sapeva che avrebbe dovuto.

Facendo meno rumore possibile scese la scalinata che dava sull'androne, dopodiché svoltò a sinistra, verso le porte della cucina. Socchiuse quella destra e scivolò all'interno. Il locale era immerso nell'oscurità più totale. L'unica sorgente di luce veniva dalle lampade a gas che illuminavano l'androne e filtravano attraverso gli oblò delle porte.

Avanzando a tentoni raggiunse la parete opposta all'entrata. Fece scorrere le dita sul muro, finché non percepì un oggetto sporgente e freddo; lo tirò e si infilò nel ripostiglio.

Lo spazio per muoversi all'interno della stanzetta era pressoché nullo. Se si considerava anche che, a causa del il buio, le possibilità di urtare una scopa e fare un baccano assurdo erano altissime, quel piccolo spazio diventava ancora più esiguo, facendo sì che somigliasse più ad una bara che ad altro. A Natasha però andava bene così; sin da quando aveva memoria le erano sempre piaciuti gli spazi stretti, le trasmettevano un senso di sicurezza. Si sedette sul pavimento freddo, strinse le ginocchia al petto e le circondò con le braccia.

Restò immobile in quella posizione per non si sa quanto tempo, immersa nel silenzio e nelle tenebre, a pensare. A volte affioravano nella sua mente ricordi di quando lei e Luka erano all'orfanotrofio, a San Pietroburgo, dove la loro unica preoccupazione era non farsi scoprire dalla signora Manilov. All'epoca l'idea di essere sculacciata fino a non sentirsi più il fondoschiena la terrorizzava, ma adesso l'avrebbe preferito mille volte. Ora non poteva farsi scoprire per nessuna ragione al mondo, perché non sapeva a cosa sarebbe andata incontro. Tutt'a un tratto la signorina Amelia, dalla voce sottile e dai modi gentili, le incuteva un profondo timore. Ma non era lo stesso timore che provava per la signora Manilov; era diverso, più angosciante, più spaventoso. Pensare a lei le appesantiva il respiro e le faceva battere il cuore all'impazzata. Nel silenzio di quello stanzino poteva sentire il pulsare del sangue nelle sue vene:

Tum tum

Tum tum

Tum tum

"Calmati Natasha - si disse - non è il momento di farsi prendere dal panico. Respira..." inalò molta aria gonfiando il petto, la trattenne per qualche secondo e la fece uscire dalla bocca. Ripeté il processo finché il cuore non tornò a battere normalmente.

In quello stanzino sembrava che il tempo non passasse mai. Avrebbe voluto sapere che ore erano, ma se avesse portato con sé un orologio le lancette avrebbero fatto troppo rumore. E comunque non avrebbe potuto vederle a causa del buio. Gli occhi di Natasha si fecero improvvisamente pesanti; se li stropicciò ed emise un lungo sbadiglio.

"Lo sapevo, dovevo cercare di dormire..." pensò socchiudendo le palpebre, forse erano già chiuse.

Mentre era in quello stato di dormiveglia udì in lontananza uno strano ronzio.

Il ronzio si fece più vicino e divenne un rombo.

Aveva già sentito quel suono, ma non capiva dove.

Stava forse sognando?

Il rombo si arrestò; provennero dei rumori indistinti alle sue spalle.

Un ronzio, costante stavolta.

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