Capitolo 40

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Massimo

Fanculo a Matteo e ai suoi consigli del cazzo.

Passo la giornata in attesa dell'uscita di questa sera, sono nervoso e non mi va bene niente. Provo a scrivere qualcosa, vorrei appuntarmi le idee che l'intervista di ieri mi ha fatto nascere in testa, ma qualunque cosa scrivo mi sembra non avere senso. I tasti del mio pc stanno scontando l'agitazione che provo in circolo e dopo l'ennesimo divagare della mia stupida mente, chiudo il portatile e mi porto le mani ai capelli.

Sono seduto sul mio divano grigio e invece delle parole di quel verme di Massaro le uniche cose che mi vengono in mente sono le sue cazzo di labbra che si muovono catturando la mia attenzione. Ecco come sono ridotto mi tiro i fili, che sembrano più biondi, sopra il capo, nella speranza di risvegliare un po' di buon senso nel mio cervello andato in loop e domani dovrò pure vederla. Spero di finire tutto presto non posso reggere questo peso, questa sofferenza rinata più invasiva che mai e non posso sopravvivere a lei in casa mia.

Mi alzo insofferente e dopo aver girato due volte intorno al tavolo capisco che devo uscire, altrimenti impazzisco. Torno in camera, tolgo la tuta per indosare dei jeans e un giubotto di pelle. Occhiali da sole, telefono e chiavi. Scendo velocemente le scale troppo irrequieto per aspettare l'ascensore, apro la porta del garage e tiro via il telo della mia harley salgo a cavalcioni e vaffanculo tutto.

Giro la manopola sul ciglio dell'uscita del mio palazzo in attesa di potermi immettere nella strada. Il rombo che riempie le mie orecchie e come il ruggito del leone ed è il suono della mia anima, in questo momento. La vibrazione sotto il mio sedere richiama la mia urgenza di dare gas, per sfrecciare lontano da questa città improvvisamente troppo piccola per me e lei.

Aggiusto il casco e finalmente ho il via libera per accelerare, mi lancio a tutta velocità nel traffico ondeggiando a destra e sinistra come non si dovrebbe fare, ma sto per scoppiare, ho la necessità di raggiungere velocemente il raccordo per poter sfogare i cavalli del motore.

Il paesaggio mi sfreccia intorno come un film mandato avanti velocemente: alberi, case, strade, io e lei a casa mia sul divano, io e lei per strada a ridere e scherzare, io e lei su questa moto a cento all'ora, io e lei nel mio letto come una cosa sola. Il vento si scontra contro la visiera come voglioso di cancellare quello che vedo ma, come è sempre stato, niente può impedirmi di custodirle fino allo sfinimento, fino alla distruzione.

Corro, corro come inseguito da demoni e poi finalmente, quando il cielo comincia a sbiadire come la mia volontà, mi fermo in un locale in riva al mare. Non è granché come posto e considerando il periodo è piuttosto vuoto, solo qualche cliente al bancone. Il legno bianco solitamente brillante in estate è ora ingrigito e smunto, un po' come me.

Posteggio la mia moto nel parapetto a un metro dal mare e ordino la prima birra di una lunga serie. Prendo la bottiglia marrone che raffredda le mie mani e mi lascio sedere sulla panchina libera più lontana dalla luce. Mentre sorseggio il liquido ambrato, osservo il sole colorare il cielo di intense sfumature di arancione, per poi essere tutto inghiottito dal nero come sempre accade alle cose belle. Quando non riesco a vedere più in là del mio naso tolgo gli occhiali scuri e ordino un'altra birra. In questo luogo dove la risacca e la musica rock di altri tempi riempiono l'aria di suoni rilassanti, rimetto a posto la belva che è in me.

Il telefono continua a vibrare nella mia tasca e ora mi sento più propenso a rispondere, prendo il telefono nel palmo e il viso di Matteo mi ricorda che dovevamo vederci. «Pronto...»

«Dove cazzo sei, coglione!» Bene.

«Lontano dalla tua faccia idiota.» Avvicino la bottiglia alle labbra.

«Ripeto, dove cazzo sei?» Indeciso gioco con la cerniera del giubotto.

«A mare.» Sospiro più rilassato.

«Arrivo!» Chiude il telefono prima del mio consenso e io annuisco alla notte, con mezzo sorriso che si perde nel buio.

Le luci dell'auto di Matteo rovinano la penombra a cui mi sono abituato. Porto la mano agli occhi infastidito.

«Una birra.» Sento dire dalla voce melodiosa di quello stronzo.

Un fruscio con un intenso profumo investe il mio equilibrio precario.

«Grazie per l'abbondante dopobarba ma non c'era bisogno, ti avrei scopato lo stesso.» Fisso il mare senza girarmi verso di lui, non so quanto la mia espressione possa esprimere del mio stato d'animo.

«Come stai?» Il suo approccio dolce mi fa raggomitolare lo stomaco.

«Bene. Non vedi.» Mi viene la nausea.

«Quanto hai bevuto?» lo vedo allungare il collo ai miei piedi.

«Ancora troppo poco.» Quanto amavo il silenzio.

«Che ti è preso? Sembravi aver retto.» Sorrido al suo pensiero. Avevo retto, ah! Come si può reggere a un treno che ti passa sopra.

Scuoto la testa. «Hmmm, forse non tanto.» Mi prendo in giro io stesso, riprendendo a bere.

«Che vuoi fare?» Ma come non capisce.

«Cosa voglio fare io? Ah, no amico, cosa vuole fare lei.» Non sono io ad avere distrutto la mia realtà.

«Massimo...»

«Massimo un cazzo, Matteo. Massimo un cazzo.» Deve essere chiaro che non sono io a dover fare qualcosa.

Il silenzio ritorna ad avvolgermi non so per quanto tempo fino a farmi sentire in colpa.

«Io non la voglio qui. Io non voglio vederla ogni giorno. Io non voglio doverle parlare. Io non voglio provare fastidio quando la mattina la vedo arrivare con te...» Inizio con voce roca e flebile.

«Non è cambiato molto, ti sentivi già male, ma ora potresti...»

«Non posso un cazzo. Io non posso un cazzo. Io non la voglio...» Praticamente urlo. «Io non la voglio desiderare.» Mi passo la mano sul viso stanco. «Io, cazzo, io non posso riaffrontare tutto.»

La sua mano si posa sulle mie spalle e resta lì a darmi conforto.

«Com'è che non dici niente?» Lo guardo di sbieco con un occhio chiuso.

«Perché non ho niente da dire.» Alza e abbassa le spalle. «Signore, altre due birre.» Sorrido al mio amico che con il suo modo di fare sembra alleggerire il mio peso.

Restiamo li fino a notte fonda con in sottofondo il rumore del mare, in mano una birra rinfrescante e lo sguardo perso a guardare l'orizzonte. Quando le luci del locale si spengono Matteo si alza pulendo i pantaloni.

«Forse era meglio la tua idea di abbordare qualcuna e scopare, ma tante...» finisce di liberarsi dalla sabbia.

«Grazie.» Lo guardo dal basso davvero felice che sia venuto, non ho risolto molto, ma ho urlato e sono rimasto in silenzio e questo mi ha fatto bene, più di un orgasmo.

La sua mano mi colpisce ancora. «Quando vuoi. Ora andiamo che ho le chiappe atrofizzate.» Sorrido alla sua espressione sofferente.

«Sì, andiamo.» Mi alzo anche io e prendo il casco da indossare.

«Sicuro di farcela a tornare a casa?» Guarda dubbioso le bottiglie di vetro che getto nella differenziata.

«A fare quello sì. Buonanotte.» Stavolta sono io a dargli una pacca salgo in moto e ritorno con nuovo vigore verso la strada di casa.

Bugia o MagiaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora