un inevitabile inizio

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Il sergente Stanford camminava imbracciando il fucile carico; camminava stando attento a non fare il più piccolo rumore. Lui e la sua squadra erano stati chiamati in quella cupa villa in campagna per rumori molesti ma adesso le cose erano cambiate: quando lui e i suoi uomini erano entrati dalla porta socchiusa della villetta la casa era deserta, o almeno così credevano. Dopo pochi minuti la spavalderia militaresca aveva lasciato il posto al terrore di ogni civile, i soldati cominciavano a sparire nel nulla e ormai il sergente era rimasto solo. Senza mai smettere di tenere il fucile pronto decise di salire ai piani superiori; perlustrò molte stanze: la prima, era una stanza con al centro un letto matrimoniale rifatto ma con le coperte sporche di qualcosa di molto simile al sangue; nella seconda stanza trovò una camera dei giochi, con al centro una bambola che portava al collo la targhetta militare di uno dei soldati; nella terza stanza non vi erano oggetti fatta eccezione per una matrioska al centro del pavimento. Ormai il sergente non sapeva più se era confuso o spaventato... Arrivò alla quarta e ultima stanza: questa volta la porta non era spalancata ma socchiusa; aprì la porta e, con stupore, vide un ragazzo sui diciotto anni seduto al centro della stanza a gambe incrociate. Con le mani giocherellava con le targhette di identificazione dei soldati, e diceva il nome e il cognome inciso su ogni targhetta, molto lentamente e scandendo ogni sillaba: "Jack Thompson, Marco Dìaz, Emily Starfire..." Dopo averli detti tutti distolse lo sguardo dalle targhette e si mise a fissare il militare. "Sa? Alla mia collezione manca un sergente..." Disse con un sorriso sadico. "Chi diavolo sei!?" Rispose il sergente puntando il fucile contro il ragazzo; il giovane non si preoccupò né del gesto del militare né tantomeno della sua domanda, si mise a parlare quasi con sé stesso ma si percepiva che in realtà parlava al sergente. "Ah... Le persone sono così ottuse, soprattutto i militari." Disse accennando un sorriso di sfida; "sa, tutte le persone che ho ucciso fino ad oggi, prima che io gli dessi il colpo di grazia, non facevano altro che dire 'no io posso cambiare! Ti preeego lasciami vivere!' Che idioti... Alcuni mi hanno anche offerto dei soldi, pff come se io uccidessi per quello. Sa? Io non uccido neanche per divertimento, anche se ammetto che mi diverto sempre molto, io uccido per ricordare alle persone che non siamo invincibili, non siamo i migliori, siamo solo degli usurpatori che pretendono rispetto senza prima darlo. Le persone pensano che tutto gli sia dovuto, che tutto ci appartenga di diritto... Ma è solo presunzione e la morte né è la prova. Io sono la cura per il cancro che voi presuntuosi state diffondendo! Io sono solo un servo del mondo..." Dopo aver detto l'ultima frase il ragazzo scoppiò in una risata maniacale e incontrollata. "Tu sei pazzo!" "Non lo siamo forse tutti in fondo? Insomma... Ammetto di non essere esattamente un modello di educazione, non vi ho neanche detto il mio nome..." Il ragazzo abbassò una leva azionando un meccanismo che, lanciando un coltello, trafisse la mano di Stanford inchiodandolo alla parete. "Jason Black Tharron, amante del jazz, dei misteri, della precisione e assassino freelance." "finirai sulla sedia elettrica! È la fine!" Jason prese il coltello e lo conficcò con forza nel collo dell'uomo, poi uscì dalla casa e gli diede fuoco. Infine si diresse ad una tavola calda, si sedette e guardò fuori. "No... è solo un inevitabile inizio" "Con chi parla mister Dalton?" "Non è niente... può ripassare tra qualche minuto? Non ho ancora visto bene il menù..." "Senz'altro" in realtà Jason non cercava il suo prossimo pasto, ma la sua prossima vittima.

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