Capitolo 11

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Raisa

Un giorno, a scuola, si avvicinò una bambina e chiese con voce tremante:
«Perché sei triste?»
Non replicai. Ricordo la ragione, rammento il momento in cui reclamò una forzata sentenza. Avevo solo quattro anni, tutta la vita da tirare avanti e un senso d'inquietudine nel petto. Cosa influenzava una bambina così piccola? Delle bambole nuove, orsacchiotti da stritolare oppure una serie di album da colorare? Io desideravo osservare il sole da una breve distanza, volevo toccare con mano quella sfera brillante. Più di tutto era il colore ad affascinarmi: il bianco. Ho sempre avuto idee limpide. Dovevo raggiungere quel posto lontano, inutile confermare, che non mi sono arresa. Ci arriverò, un giorno giungerò ad un centimetro dall'incanto. Non ho mai posseduto mezze misure, o tutto o niente. Il grigio non è nella scala dei colori e il nero è fin troppo ombroso per essere classificato. Ho paura del buio, non ho celato il segreto ed è questo il motivo di tale ambizione. La necessità della luce eterna, la crepa da cui trapela. Ho compreso con il tempo di essere il personaggio complicato della storia, quello indecifrabile. Difficile da descrivere, criptico e incapace di essere. Non mi sono nascosta in una dimensione appagante neppure, nel tempo in cui ne avevo l'urgenza. Sono me stessa senza interruzione, afferro di non essere per tutti ma è questo il bello. Solo chi saprà guardare oltre noterà il valore vero. Il sorriso che mostro non è reale, lo ammetto esplicitamente, ci sono giorni in cui l'intenzione di sollevare il corpo dal materasso è pari a zero. Vorrei evitare di riflettere, poltrire e sperare che accada qualcosa. L'incidente avvenuto non ha fatto che influire in modo negativo e il peso di conoscere la verità è straziante. Dovevo comunicare la mia presenza, ammettere di aver assistito all'omicidio e subirne il vigore. Al contrario, ho taciuto. Essermi imbattuta in uno degli scapoli più ignoti di Southdell non ha favorito alla liberazione, ho verificato tutta la notte la veridicità delle parole. Ha falsificato l'identità per avere un appuntamento, Hendrick Anderson è morto vent'anni fa. Non esiste. È sconcertante e macabro come scenario. Se non è chi dice di essere, perché mentire? Immagino la ragione di tale strategia. Perché uno come lui, di punto in bianco, ha individuato una come me? Lui sa. Loro rintracciano tutto e tutti, a me è bastata una ricerca su Internet per denudare gli atti di cui sono accusati. Andrew, l'erede, è citato per essere il committente. Riportano di un certo Tourus deceduto all'interno della sua dimora, un figlio orfano da entrambi i genitori e un ranch che occupa un centinaio di ettari. Non c'è traccia di lui. Nessuna menzione, nessuna convocazione. La curiosità uccise il gatto. Questa frase mi è balzata nell'anticamera dell'intelletto più volte, mentre pigiavo i vari tasti. Non ho uno scopo pertinente al contesto, fingerò di essere affine a tale mondo. Scoverò i misteri e racconterò alla polizia qualunque cosa, sarò l'esempio da seguire. Non Barny, non l'oppressa. Ho sprecato l'intera notte per effettuare ricerche, dopo attentati alla mia vita, sono preparata. Oggi è martedì, un odioso lunedì per me. Con l'umore instabile e una decina di frequentatori abituali, utilizzo la mano destra per annotare le ordinazioni. Destreggio fra i tavoli con rapidità, assisto ad una lite fra anziane e la fine di una relazione. Il cielo è coperto di nuvole grigie, la pioggia picchia contro le vetrate, il vento percuote l'albero dinanzi al negozio. Osservo un ragazzino fuggire all'ira di Zeus, si rifugia nel bar all'angolo e china le ginocchia. Il profumo di pane all'olio invade le narici, lo stomaco brontola per la fame. Richiamo Lillian e Brianna con un gesto veloce della mano, afferro una fetta di pizza e indosso il giubbotto rapidamente. Cammino verso il retro, siedo sugli scalini raggomitolata su me stessa. Il freddo di novembre penetra nelle ossa, allungo la zip fino alla mascella tesa. Azzanno il cibo con godimento, gemo per il piacere.
«Hai dimenticato l'acqua sulla panca» Lillian lancia la bottiglietta, atterra ai piedi di Brianna. Quest'ultima è collocata accanto a me. Il viso basso e le mani pressate sul grembo, il pancino è un pancione adesso. Ha mangiato un intero cocomero e un sasso gigante. Fuoriesco la lingua e sollevo il dito medio come ringraziamento.
«Sei infantile» bofonchia la bionda, afferra il pacchetto di Marlboro dalla tasca. Ignoro la provocazione.
«Questa notte non ho chiuso occhio. Ho il cervello in pappa e il turno fino a sera. Nevaeh mi ha chiesto di restare, sapete cosa vuol dire?» sorseggio la bibita, ingerisco l'ultimo pezzetto e sbafo una cicca. Lucidare il pavimento è una tortura superficiale.
«Basta chiederle le cose Aisa, sei alquanto melodrammatica. Possiamo trattenerci fino a questa notte» espone Brì, il tono da mamma chioccia le s'addice perfettamente.
«Non è da Raisa, non l'ha mai fatto» espone Lillian, ispira con arroganza. Sistema gli occhiali sul naso e sbuffa.
«Credo sia un'argomentazione delicata» risponde e schiocca la lingua. Il caschetto ricade sulle spalle, la frangia corta sulla fronte e le labbra aride. Una smorfia di dolore appare sul volto pallido. Non emetto una sola sillaba, oltrepasso il varco d'emergenza e infiammo la nicotina. Socchiudo le palpebre al sapore, pungente e speziato. La scorgo contorcersi ad ogni fitta, Lillian aggrotta l'arcata sopraccigliare. La mora si sforza di restare calma, respira piano con il naso. Nega la realtà e non chiede aiuto. Alzo gli occhi al cielo, la solita presunzione. Punzecchio il fianco della bionda e reclamo in silenzio che invochi Zia Lyn, nel frattempo deconcentro la futura madre.
«È l'orgoglio a frenarti, ma non credi sia arrivato il momento di comunicare che stai soffrendo? È inutile mascherarlo Brì, Kilian ha deciso di venir fuori prima dello scadere del temp» lancio via il filtro e reclino il dorso su di lei. Scosto una ciocca e la ripongo sul retro dell'orecchio. Presso il palmo verso il tessuto felpato, il bebè scalpita senza sosta. Una sensazione bizzarra spiazza entrambe, mai sentito niente di più autentico. Una vita umana risiede in una capienza minima, annoto la pena che deve provare e la volontà di venire al mondo. Unisco le falangi, impugno con forza.
«Stringi quando senti male, non ti lascio sola» mormoro ad un centimetro da lei.
«Brianna! Come stai? Cosa sta succedendo?» sua madre spunta sull'uscio, la pelle diafana e la chioma arruffata. Sul grembiule una serie di macchioline al cioccolato e alcune gocce di estratto alla vaniglia. Agita le braccia nel panico, Emily agguanta le spalle con fare amorevole. Lo sgomento è abbastanza per tutta la famiglia, nessuno escluso.
«Andiamo in ospedale!» esclama papà, sorride con gli occhi lucidi.
«Guido io, sono pur sempre il nonno!» dice Zio Tony, strappa il berretto e coglie in pieno uno degli scatoloni.
«Io resto qui, siamo in troppi» asserisce mia madre.
«Anch'io resto, andate...ADESSO!» recita Lillian con un sorriso rassicurante presso sulle labbra. Custodisce l'immagine nella mente e gesticola, Miles porta via Brianna mentre rivolgo uno sguardo di compiacere alla mia migliore amica. Non abbiamo bisogno di proferire per svelare i nostri sentimenti. È sempre stato così, sono sufficienti i gesti per comprendere. Annuisco, bacia il dorso della mano e saluta. Cammino in fretta, una folata puntella le gote. Penetro nell'abitacolo, raccolgo il coraggio avanzato e ne infondo un po' alla genitrice.

*

Odio gli ospedali, li ho evitati per anni. Il corridoio bianco è pieno di specialisti, si muovono velocemente in cerca di pazienti. Siamo immobili su queste sedie scomode e inquiete da almeno cinquanta minuti. Sono frustrata e impaziente. Ho visto Brianna sparire oltre l'accesso del pronto soccorso, l'abbiamo collocata su una seggiola e trainata fino all'ambulatorio. Soccorrerla in quelle condizioni ha smosso qualcosa in me, ho percepito la disperazione di essere sola. Nessun compagno a tenderle il cuore, nessun padre ad attendere suo figlio. Piango, una lacrima salata taglia la guancia e atterra sul labbro superiore. Prometto a me stessa di rendere Kilian un bambino felice e amato. Non importa se un giorno dovessi privarmi di altro, lo farò.
«Non essere triste, stanno bene» abbasso il capo sui jeans, Zio Tony non smette di chiedere informazioni alle donne che fuoriescono dalla sala.
«Ricordi l'ultima volta?» parla piano, rammenta la sceneggiata compiuta dalla madre di Clay. Ricordo le urla disperate e i lividi che tempestavano lo zigomo, ricordo il disprezzo provato e la rabbia repressa. Ed è stata l'ultima volta che ci siamo parlati, l'ultima volta. Non mi ha più cercata e ringrazio Dio, tutti i giorni, per avermi sottratta alla morte.
«Mi dispiace...» volgo lo sguardo all'uomo, affranto ed impotente come quella notte. Si sarà sentito privato del potere?
«Avrei dovuto fare qualcosa, qualsiasi cosa...» la rabbia è palpabile, annuisco. Non protesto in alcun modo, sono priva di forza. Non è il momento di rammaricarsi, c'è una ragazza di vent'anni che ha bisogno di noi. Isso in piedi, rimuovo il cellulare dalla tasca e scrivo un messaggio a mia madre. Sta bene e nient'altro.
«La famiglia di Brianna McHouse?» invoca l'uomo. Guizziamo, concentro l'attenzione su di lui. Non ha più di trent'anni, nessun accenno di barba o maschio Alpha. È rilassato e respira profondamente, legge la cartelletta e sorride. Distendo i muscoli tesi, non c'è pericolo. Scorgo la figura femminile dirigersi verso l'uscita, sorregge il ventre materno con le mani, barcolla ma non occupa il posto.
«Sto bene, posso camminare anche da sola» risponde stizzita all'infermiera, sghignazzo. Scuoto la testa, cosciente.
«Come potete notare la paziente è in ottime condizioni. Qualche leggera contrazione ogni ora, ma è del tutto normale al nono mese di gravidanza» gratta il retro del capo. Zia Lyn sgrana gli occhi ed io lo stesso. Nono mese di gravidanza? Allora, non c'è stata nessuna festa. E se non c'è stata nessuna festa, ha mentito. Mi schiaffeggio mentalmente. Come ho fatto a non rifletterci prima? L'atteggiamento schivo, la negazione riguardo la psichiatra. Lei conosce il ragazzo, sa chi è. Perché non l'ha confessato? Perché non ha citato l'obbrobrio che le ha fatto questo? Squadro attentamente la donna, iridi dilaniate e i terrore inciso sulle gote smussate. Cosa ti hanno fatto? E obietto perché è la consapevolezza a render tristi, la perdita di un equilibrio base, l'impotenza di fronte a tale atrocità, la delusione verso sé. Questo rende amaro il corso della vita.

#spazioautrice
Ciao a tutti, come state?
Ho aggiornato in tempo, finalmente. Vi è piaciuto il capitolo? Lasciate un commento o una stellina.
Vi voglio bene.
Fatima.🌻

𝑭𝒊𝒐𝒓𝒊 𝑵𝒆𝒍 𝑩𝒖𝒊𝒐.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora