Capitolo 25

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Pirenea non aveva mai volato in vita sua e la sensazione le piaceva. Viaggiò diversi giorni in groppa a Pegaso, alla stessa altezza dove i falchi fanno le loro ronde in cerca di succulente prede da divorare. Ma il cavallo alato era più veloce di un falco e la foresta scorreva sotto di loro come un tappeto verde. Si fermavano solo per mangiare o riposare, ma per la maggior parte del tempo viaggiavano con il vento fresco che sferzava il viso di Pirenea e che scuoteva la criniera di Pegaso.
Per la prima volta nella sua vita la ragazza si sentiva libera. Ciononostante, un giorno sentì che Soccante non era lontano da lei e dovette chiedere a Pegaso di rallentare e di abbassarsi di quota, perché da quell'altezza non poteva di certo sperare di trovare il principe. Il cavallo, un po' titubante, acconsentì e planò fino a sfiorare con le zampe le cime degli alberi più alti.
La guerriera si sporse al di là del collo di Pegaso per vedere meglio. La foresta però era fitta e non vedeva un granché.
"Non vedo nulla!" gridò al cavallo, sporgendosi un po' di più verso il basso.
Pirenea socchiuse gli occhi, sperando di vedere meglio, ma un movimento improvviso le fece ritrarre la testa, bruscamente. Una freccia le sfiorò la guancia, continuando la sua strada alta nel cielo. Pegaso nitrì, sorpreso e cercò di alzarsi di quota, ma una seconda freccia sbucò dal folto della foresta e lo colpì alla zampa posteriore. Il cavallo nitrì ancora, ma questa volta di dolore e Pirenea urlò, sorpresa.
"Andiamo via Pegaso!" gridò.
Il cavallo fece una curva brusca, ma una terza freccia lo colpì sotto l'ala, là dove c'era l'attaccatura con il corpo. Con un'ala immobilizzata, Pegaso e Pirenea precipitarono inesorabilmente tra i rami degli alberi. Mentre cadevano, Pirenea si aggrappò con tutte le sue forze al collo dell'animale, perciò, quando si schiantarono a terra, fu lui a prendere il colpo peggiore. Pirenea venne disarcionata dal colpo e cadde poco lontano, di schiena. Si rimise in piedi: oltre a qualche graffio non si era fatta nulla. Poi si voltò verso Pegaso.
Il cavallo era in condizioni ben peggiori. Giaceva sdraiato a terra, perdeva molto sangue dalle ferite causate dalle frecce e il suo manto bianco ne era ora sporco. Anche la candida criniera era arruffata e piena di foglie e ramoscelli. Aveva una zampa rotta e il muso schiacciato che perdeva sangue, come se cadendo ci fosse atterrato sopra e se lo fosse rotto. Respirava a fatica, annaspava febbrilmente e non riusciva nemmeno più a nitrire.
"Oh no, Pegaso!" disse Pirenea disperata.
Poi prese la spada e gli si piazzò davanti, come uno scudo, guardandosi attorno in cerca degli arcieri che lo avevano ferito.
"Da questa parte, è caduto di qua!" sentì gridare la voce di un uomo.
Sei persone sbucarono dal folto della foresta. Erano umani, probabilmente persone partite dal regno di Plantea. Pirenea fece un rapido calcolo metodico delle armi di ognuno: c'erano due arcieri, tre con coltelli da caccia e uno con un machete. I sei individui si fermarono sorpresi vedendo Pirenea.
Come biasimarli, non capita tutti i giorni che cacciando nella foresta si incappi in una donna che, con una spada in mano, difende un cavallo alato. Perdipiù, lei aveva rinunciato alla sua armatura, quindi, non potevano nemmeno sapere che fosse una guerriera di Animalia. Risulta dunque comprensibile che uno dei due arcieri, guardandola disse:
"Voi siete Artemide, temeraria Dea della caccia, giusto?" Pirenea si voltò un attimo verso Pegaso, che non si muoveva praticamente più.
Scorse però ancora degli spasmi irregolari a livello del suo torace, sintomo che respirava ancora. Doveva agire in fretta, per aiutarlo.
"Io la Dea Artemide?" chiese, sarcastica, avanzando verso di loro "assolutamente no, luridi cacciatori, ma forse per voi sarebbe stato meglio se foste incappati in Lei anziché in me, perché io non vi risparmierò" non fecero in tempo a capire le parole della ragazza, che lei era già saltata loro addosso.
Ora, miei cari lettori, il duello fu molto cruento e io potrei benissimo non raccontarvelo e dirvi semplicemente come andò a finire, ma immagino che una parte di voi sia curiosa di sapere come andò, vero? Chi sono io per non soddisfare questo vostro macabro interesse? Se però siete deboli di cuore, se svenite alla vista del sangue o se oggi proprio non vi va di leggere questo tipo di crudeltà, sentitevi liberi di saltare il prossimo paragrafo.
Con un fendente della spada, Pirenea fece un largo taglio sul ventre di uno dei cacciatori e, prima ancora che lui potesse realizzare quello che stava succedendo, o potesse estrarre il suo coltello da caccia, il suo intestino fuoriuscì in una cascata di sangue. L'uomo cadde a terra, morto. Gli altri cinque gridarono per la sorpresa e ognuno si armò, ma uno degli arcieri, quello che prima l'aveva scambiata per Artemide, non fece in tempo ad incoccare la freccia, che con un altro colpo della spada lei gli ruppe l'arco in due. Per la sorpresa, lui fece cadere la freccia e lei la recuperò, piantandogliela nella gamba. Lui ruggì di dolore, ma Pirenea non ci fece caso e girò su sé stessa. Con la coda dell'occhio aveva visto il secondo arciere incoccare una freccia, ma adesso lui le stava alle spalle e lei fronteggiava i tre altri cacciatori, che le correvano incontro. Nella sua testa calcolò il tempo che un arciere ci mette a prendere la mira e di colpo si abbassò. Calcolo perfetto, la freccia sibilò sopra la sua testa e trafisse la nuca uno dei tre che le correva incontro, passandogli direttamente dalla bocca. Anche lui cadde morto. L'arciere gridò disperato, per aver ucciso uno dei suoi e gli altri due si distrassero un attimo, quel tanto che bastava per farsi attaccare da Pirenea. Con un calcio allontanò quello con il machete, mentre con un altro fendente tagliò un orecchio al suo compagno. Un altro grido di dolore si alzo nella foresta. Con un gesto veloce lei approfittò di questo momento per sfilargli il pugnale dalla mano e, con una precisione che aveva allenato quando era ancora ad Animalia, si voltò e lo scagliò verso l'arciere, che stava incoccando la seconda freccia. Il pugnale lo colpì dritto al cuore. Un altro morto. Pirenea si voltò di nuovo, appena in tempo per schivare un colpo di machete. Con l'elsa della spada colpì l'uomo in faccia e con un altro calcio lo allontanò una seconda volta. Lui tornò all'attacco, usava il machete come una spada e probabilmente aveva imparato le basi dei duelli perché se la cavava abbastanza bene. Lei schivava e indietreggiava. Sapeva che alle sue spalle c'era il primo arciere, quello a cui aveva rotto l'arco e a cui aveva piantato la freccia nella gamba. Sapeva che si stava inesorabilmente avvicinando a lui e con un gesto fulmineo voltò la testa per vedere quanto fosse distante. Così, mentre schivava i colpi e indietreggiava, contava i passi che la distanziavano da lui. Se in quel momento lei fosse stata l'arciere, avrebbe preso un'altra freccia dalla faretra e l'avrebbe usata per attaccarla alle spalle, mentre indietreggiava. Così, quando fu sufficientemente vicina a lui, fidandosi del suo istinto, anziché fare un altro passo indietro, schivò un fendente del machete scartando verso destra. Pirenea aveva ragione e mentre l'arciere, inginocchiato si protraeva in avanti cercando di pugnalarla con una freccia, il machete fermò la sua corsa nel suo cranio, all'altezza della tempia. Con un disgustoso rumore sordo la testa dell'uomo si spezzò in due e tra sangue e materia cerebrale, anche il quarto cacciatore morì. L'uomo con il machete, sporco del sangue del suo compagno, guardò Pirenea e, senza nemmeno recuperare la sua arma, così a mani nude, le corse incontro. Aveva uno sguardo assassino di chi, pazzo di dolore ha appena ucciso un suo amico. Lei fece un passo indietro, pronta al confronto, ma inciampò in una radice e cadde. Lo vide avvicinarsi inesorabilmente, ma d'un tratto fu tutto finito. Una freccia sibilò e gli si conficcò nel petto. Lui si fermò, più per la sorpresa che per il dolore. Un'altra freccia lo colpì al torace, poi altre due e altre ancora. Pirenea ne perse il conto, ma quando il cacciatore cadde a terra, le sembrò di guardare un cuscinetto porta spilli. Guardò l'ultimo cacciatore, quello a cui aveva mozzato l'orecchio, anche lui giaceva a terra morto, con tre frecce piantate nella schiena.
Così, tutti i cacciatori erano morti, ma Pirenea non sapeva chi fosse stato a scagliare quelle frecce. Con un movimento rapido rotolò su sé stessa, mise la spada nel fodero e recuperò l'arco dalla mano del cacciatore (quello che aveva un pugnale piantato nel petto) e una freccia dalla sua faretra. Sentì uno scalpitio di zoccoli provenire ovunque dalla foresta, pensò che ci fossero altri cacciatori, a cavallo questa volta, che stavano arrivando. Si voltò verso Pegaso e vide uno di loro chino sul cavallo, ma non era un cacciatore.
Era un ibrido: cavallo dalla vita in giù e umano, dal torso nudo, dalla vita in su. Una faretra gli sbucava da dietro una spalla e una grossa spada era in un fodero attaccato al suo fianco equino. Aveva un arco in mano e osservava Pegaso coi suoi occhi verdi e penetranti, al di là di una cortina di capelli bruni. Era un centauro. Ma questo a Pirenea non importava, perché aveva imparato a non fidarsi di niente e nessuno in quella foresta e tutto quello che vedeva era una creatura armata china sull'unico amico che aveva trovato in quel macabro luogo.
Perciò incoccò una freccia e, mirando al lucido manto del centauro, disse:
"Allontanati da lui o giuro che prima ti trafiggo con questa freccia e poi ti mangio per cena" il centauro alzò lo sguardo, notando forse per la prima volta la presenza della ragazza.
Pirenea capì però di aver sbagliato a minacciarlo, perché attorno a sé sentì un rumore che non le piacque. Il rumore di un centinaio di archi che si tendono, pronti a scoccare una cascata di frecce. Con la coda dell'occhio vide che era accerchiata da altri centauri armati, ma lei non lasciò comunque il suo arco e lo tenne saldamente puntato contro il centauro che troneggiava su Pegaso.
"Tu devi essere Pirenea" disse lui, con voce calma.
"Come mi conosci, bestiaccia?" chiese lei, senza abbassare l'arco.
Lui ignorò l'insulto e le rispose con calma:
"Mio padre ha sentito parlare di te, ha trovato la tua armatura, girovagando per i boschi, e vuole conoscerti" si guardò intorno, vide il macello che Pirenea aveva commesso.
Con una nota di stupore e meraviglia che non riuscì a nascondere, il centauro le domandò:
"Li hai massacrati dà sola questi cacciatori?" lei non rispose ma il sangue che aveva sul viso, sulle braccia e sui vestiti rispondeva alla sua domanda.
"Chi sei tu e cosa vuole tuo padre da me?" domandò, sempre minacciandolo, cosciente di avere centinaia di frecce puntate alla sua testa.
"Io sono Equimante, figlio del grande Chirone, mentore di grandi eroi quali..."
"Mentore di Achille" lo interruppe Pirenea e questa volta fu lei quella sorpresa.
Equimante sorrise.
"Sì, probabilmente Achille è stato l'allievo più famoso di mio padre."
"Pegaso è ferito" disse la guerriera "se io accetto di venire con voi, potete curarlo?"
Il centauro annuì con aria grave.
"Purché tu non mi uccida e non mi mangi per cena strada facendo" le disse, divertito.
Pirenea capì che non aveva scelta, doveva aiutare Pegaso, così abbassò l'arco e lo lasciò cadere per terra. Attorno a lei anche i centauri abbassarono le loro frecce. Quattro di loro si fecero avanti e, con delicatezza, sollevarono il cavallo alato e partirono al galoppo. Equimante le si avvicinò e le porse la mano, lei gliela diede con riluttanza e, con una forza incredibile, lui la sollevò e se la mise in groppa. Partì anche lui al galoppo, seguito dai suoi compagni e Pirenea, col viso rosso, dovette aggrapparsi al suo petto nudo per mantenere l'equilibrio. L'esercito scomparve nel folto della foresta e per un po' l'unico rumore che Pirenea sentì fu il battere degli zoccoli sul terreno.

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