Capitolo 35

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Quando finalmente smise di piovere, anche il sole era calato. Neofante era fradicio, ancora sdraiato sotto l'albero che aveva usato per proteggersi dall'intemperia, e il suo cuore era logoro dalla preoccupazione per Ambrosio. Si chiedeva continuamente se l'amico se la fosse cavata o se si fosse fatto divorare dal fiume come Cerbero. A volte si chiedeva anche questo, se Cerbero fosse morto o lo stesse ancora cercando e quando questo pensiero lo sfiorava, aveva l'irrimediabile voglia di alzarsi in piedi e andarsene, pur non sapendo in che direzione. L'unica consolazione per Neofante era che probabilmente il mostruoso cane a tre teste non era sulle tracce di Ambrosio, ma sulle sue perché era stato lui a prendere la lira dal drago-serpente ed era stato lui a scatenarlo contro Ade. D'un tratto cominciò a domandarsi anche dove fosse andato il drago-serpente.
Ricordava che una volta, da bambino, sua mamma gli avesse raccontato una storia su un mostro di quella forma, ma non era certo di ricordarla tutta. Sapeva che c'entravano Apollo e l'oracolo di Delfi che, per via di quel mostro, la gente iniziò a chiamare Pizia. Neofante non era sicuro che si trattasse dello stesso mostro ma decise comunque di chiamarlo con lo stesso nome che aveva nel mito: Pitone. Neofante si chiedeva cosa ne fosse stato di Pitone, magari anche lui era sulle tracce della lira e in quel momento stesso stava attaccando quella malvagia ragazza che se l'era presa con Ambrosio e con lui.
Così ricominciò a chiedersi dove fosse Ambrosio e a preoccuparsi per la sua sorte. Nella testa rivisse i ricordi di quell'ultimo mese assieme. Ripensò al macabro e oscuro labirinto ed un brivido lo percosse, ripensò al Minotauro e ai mostri che avevano incontrato lì, a Ade e a come l'avessero scampata. Ma più ci pensava, più stava male per l'amico e voleva fare qualcosa. In cuor suo però sapeva che non poteva fare nulla oltre che a sperare di ritrovarlo per caso.
Neofante passò la giornata pensando e aspettando che smettesse di piovere e quando finalmente ne fu il caso, constatoò con un tuffo al cuore che faceva troppo buio per rimettersi a cercarlo. Al ragazzo non restò che dormire ed un sonno agitato lo pervase tutta la notte.
Si svegliò con le prime luci dell'alba, per niente riposato, e con i vestiti ancora bagnati addosso. Non trovò nulla da mangiare e si mise in marcia a stomaco vuoto. Il sole gli indicava dove fosse l'Est e lui, a dispetto di quello che voleva fare il giorno prima, ossia seguire il corso del fiume, decise che avrebbe continuato la sua strada verso Sud perché sapeva che se Ambrosio era sopravvissuto alla tempesta, probabilmente si era diretto nella stessa direzione per incontrare l'amico a Plantea.
Camminò a lungo, immerso nel silenzio della foresta. Attraversò radure, prati e cespugli. Aveva il morale sotto ai piedi e da mangiare aveva trovato solo alcune radici e sporadici funghi, che aveva ormai imparato a distinguere dai funghi cattivi. Più camminava, più si domandava quanto fosse distante il regno. All'andata non gli era sembrato di camminare tanto, ma forse era stato proprio Ambrosio a rendere meno lungo quel noioso viaggio. Quanto è vero che non si apprezza davvero qualcosa finché non la si perde. Un amico, per esempio.
"Ti sei perso, ragazzo?" Neofante si lasciò sfuggire un'esclamazione di sorpresa.
Si guardò in giro ma non vide nessuno.
"Chi sei, fatti vedere" disse, tirando fuori il piccolo coltello che teneva appeso alla cinta.
Le mani gli tremavano e gli occhi percorrevano in lungo e in largo tutta la foresta attorno a lui, ma non vedeva nessuno.
"Sono quassù" gracidò nuovamente la voce.
Neofante alzò lo sguardo e per poco non gli prese un colpo. Appollaiata su un albero c'era una donna, ma non era una donna normale, perché per metà era un uccello. Aveva faccia, petto e braccia umane, ma per il resto sembrava essere solo un grosso rapace. Aveva la schiena piumata, grandi ali e due zampe dai lunghi artigli. Nel complesso doveva essere alta almeno due metri.
"Io so chi sei" le disse Neofante, alzando il coltello e facendo un passo indietro "tu sei un'arpia, una servitrice di Ade!" la mostruosa donna, il cui ghigno ricordava quello di un falco e il naso il becco di un gufo, lo guardò in modo meschino.
"Lascia che ci presentiamo" disse "io sono Celeno l'arpia oscura, la regina."
"Io sono Aello" gracchiò una voce in un cespuglio poco lontano dal ragazzo, sulla sua destra "anche detta la bufera."
Neofante si spaventò, non si era accorto di quella presenza perchè il colore del suo piumaggio le consentiva di mimetizzarsi con le foglie.
"E io sono Ocipete" una terza voce sorprese il ragazzo, sulla sua sinistra un'altra arpia uscì dall'ombra "la più rapida a volare tra le mie sorelle."
"Ci hai riconosciute" disse Celeno, la regina "siamo le arpie, servitrici di Ade, unico vero Dio e torturatrici degli inferi."
"Cosa volete?" sbraitò Neofante, non sapendo quale delle tre mostruose sorelle guardare.
"Sangue!" rispose Ocipete.
"Caos!" disse Aello
"Vendetta!" esclamò Celeno
Neofante, che aveva affrontato guerrieri, Dei, draghi-serpenti, e mostri vari, fece l'unica cosa logica che un qualunque eroe avrebbe fatto in quella situazione. Attaccò? No, fuggì. Le arpie si misero a ridere di gusto vedendolo reagire in quel modo.
"Adoro quando scappano" sentì dire Aello.
"Lasciamogli un po' di vantaggio sorelle" disse Ocipete che, essendo la più rapida delle tre, adorava gli inseguimenti.
"No, prendiamolo" ordinò Celeno, spazientita.
Neofante sentì un gran battito di ali alle sue spalle. Mentre lui incespicava e inciampava nelle radici degli alberi, quelle avevano preso il volo e lo inseguivano disegnandosi percorsi tra gli alberi. In un attimo Celeno gli fu accanto e gli disse:
"È inutile che scappi, tu hai oltraggiato il grande maestro Ade e gli hai rubato la lira. Noi lo vendicheremo e gli riporteremo il suo strumento."
"Io non ho rubato proprio niente!" esclamò Neofante e con il coltello disegnò un grande arco in aria, cercando di colpire l'arpia.
Quella schivò il colpo e gridò alle sorelle:
"Prendetelo!"
Prima che Neofante potesse accorgersi di quello che stava succedendo, sentì un dolore immenso alle spalle e si sentì sollevare in aria. Aello e Ocipete lo avevano afferrato con gli artigli, piantandoglieli nella pelle, una da una parte e l'altra dall'altra, e lo avevano sollevato. Mentre lo portavano sempre più su, Celeno gli si accostò nuovamente e gli disse:
"Sai come cacciano i rapaci, vero? Portano le prede su nel cielo e poi le lasciano cadere, così il loro cranio si rompe e possono assaporare le parti più succulenti."
Il tetto di foglie della foresta esplose sotto la forza delle arpie e Neofante si procurò molti graffi sul viso e sulle braccia. Le arpie lo sollevarono molto più in alto di quanto fosse mai stato e lui pensò che quella fosse la fine, ma davanti a sé vide qualcosa che gli riempì il cuore di speranza. Non molto lontano da loro, a una distanza pari a due campi da calcio, delle alte mura disegnavano il contorno di una città. Il ragazzo riconobbe subito il regno di Plantea e in cuor suo capì che non poteva morire lì, così vicino al traguardo, non dopo tutto quello che aveva vissuto.
Così strinse i denti e d'un tratto fece un brusco movimento e menò il coltello con tanta forza da tagliare un artiglio ad Aello. L'arpia ruggì di dolore e lasciò la presa, il suo lungo artiglio mozzato ancora conficcato nella spalla del ragazzo. Ocipete si trovò a reggere da sola Neofante e questo la destabilizzò, così il ragazzo, con una forza che fino a un mese prima non aveva, le afferrò gli artigli con le mani e li aprì, facendo perdere la presa anche a lei. Neofante cadde nel vuoto, ma sotto di lui, a pochi metri, c'era Celeno che volava. Cadendo, la investì in pieno e i due precipitarono insieme stretti in un abbraccio mortale.
Il ragazzo e l'arpia furono scaraventati di ramo in ramo mentre cadevano nella boscaglia. Finalmente, con un gran tonfo e piume che volarono ovunque, i due si schiantarono a terra. Fortuna vuole che Neofante atterrò proprio sopra Celeno, che attutì il colpo, quindi non si fece troppo male. In un attimo si rimise in piedi e, un po' zoppicando, un po' correndo, continuò la sua corsa, reggendosi la spalla sinistra dentro cui era ancora infilato l'artiglio mozzato.
Dal canto suo Celeno non si mosse, ma disse alle sorelle:
"Inseguitelo, gallinelle inutili!" e quelle eseguirono.
Ma stavolta Neofante aveva preso più vantaggio e non le vedeva più. Con un balzo oltrepassò un cespuglio, ma quando toccò terra, la sua gamba destra, che aveva preso una brutta botta durante la caduta, cedette e lui ruzzolò sull'erba.
Il ragazzo si rialzò in fretta e furia e si accorse con enorme sollievo di essere uscito dalla foresta. Ora si trovava nell'immenso prato che separava le mura del regno dall'inizio del bosco. Continuò a correre, ma nel frattempo anche le due arpie che lo inseguivano uscirono dalla foresta. Aello sanguinava abbondantemente, ma questo non sembrava turbarla, tutto quello che voleva era uccidere Neofante. Insieme alla sorella Ocipete, volavano in alto, pronte a planargli addosso.
Il ragazzo correva a più non posso e a gran voce gridava aiuto alla città:
"Aiutatemi, vi prego, aiuto!" con sollievo vide le porte del regno aprirsi, ma erano troppo lontane, le arpie lo avrebbero preso prima che potesse varcarle.
Per sua fortuna però, quando le guardie sulle mura avevano sentito Neofante chiamare aiuto, avevano subito aperto i portoni della città e la donna a capo degli arcieri aveva immediatamente dato l'ordine di prendere le posizioni di combattimento.
"Caricate!" ordinò.
Alle due arpie che inseguivano Neofante brillarono gli artigli alla luce del sole.
"Mirate!"
Si buttarono in picchiata sul ragazzo, pronte ad affondare i lunghi artigli nella sua carne.
"Scoccate!"
L'ordine venne eseguito all'istante e una pioggia di frecce investì i mostri un attimo prima che quelle riuscissero ad afferrare Neofante. Aello e Ocipete precipitarono a terra, morte. Tutto questo successe però alle spalle del ragazzo, che, ignaro della sconfitta delle sue inseguitrici, continuava a correre a gran carriera e ora gridava:
"Vi prego non scoccate altre frecce, non sono io il mostro!"
Finalmente Neofante oltrepassò il portone, che si richiuse dietro di lui all'istante e cadde in ginocchio nella piazza, proprio di fronte al vecchio pozzo. Il coltello gli cadde di mano e il ragazzo teneva una mano sulla spalla ferita. Ebbe finalmente il tempo di tirare un sospiro di sollievo. Intanto le guardie della città e una piccola folla di curiosi si erano radunati attorno a lui.
Ma quel momento di pace non durò che un attimo, perché dal nulla, in un battito di ali, Celeno, atterrò accanto a lui, lo prese per la gola e lo sollevò. I piedi di Neofante sfioravano terra. Il ragazzo non riusciva più a respirare e il suo viso si tinse di rosso. Non aveva più il coltello, che aveva lasciato cadere appena entrato in città e non poteva difendersi, così le afferrò il braccio con entrambe le mani, cercando di allentare la presa, ma l'arpia era più forte.
Proprio mentre il mondo iniziò a farsi più scuro e i contorni più sfocati, qualcuno intervenne e con un poderoso pugno ben assestato nel viso di Celeno, le fece lasciare la presa. L'arpia fece alcuni passi indietro.
"Non azzardarti a toccarlo qualunque-cosa-tu-sia" disse Ercolea, frapponendosi tra Celeno e il ragazzo.
"Sennò che fai, mi uccidi?" stridette la cratura, divertita.
D'un tratto l'arpia attaccò Ercolea e le due caddero a terra, tirandosi pugni a più non posso. Sembrava che Celeno avesse dimenticato di essere per metà uccello e di avere ali e artigli, perché lottava come si fa in una rissa, rotolandosi nella polvere e colpendo l'avversaria coi pugni serrati. Piume e capelli volavano in giro, ma nessuna delle due voleva saperne di lasciar perdere
"No!" annaspò Neofante, facendo appello a tutte le sue forze per mettersi in ginocchio.
Afferrò l'artiglio che gli usciva dalla spalla e con un urlo terribile, se lo stappò dalla carne. Si aggrappò ai bordi del pozzo e si mise in piedi a fatica, poi, senza pensarci due volte, si buttò nella mischia come ci si butterebbe nell'acqua fresca di un fiume in un caldo pomeriggio d'estate: di testa. Non pensò a quello che stava facendo e con un colpo ben assestato, pugnalò al petto una delle due.
Poi per Neofante il mondo si fece scuro. Aveva perso molto sangue, vissuto molte emozioni violente e usato tutte le sue energie per scappare. Il ragazzo perse i sensi, ma dall'ombra del suo dormiveglia, sentì ancora dire:
"Neofante..." era la voce sofferente di Ercolea.
"Io ti ucciderò" questa invece era Celeno.
Poi tutto tacque.

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