Capitolo Nove - Non Ho Chiesto Questo

83 10 7
                                    

Sono stanco di essere quello che tu vuoi che io sia
Sentendosi così infedele, perso sotto la superficie
Non so cosa ti aspetti da me
Mi metti sotto pressione quando cammino nei tuoi panni
Ogni passo che faccio è un altro errore per te

Numb - Linkin Park

26 gennaio 2012

Mi sforzavo di stare immobile sulla sedia - la sua sedia - domandandomi perché mi avesse detto di accomodarmi proprio lì: non lo permetteva a nessuno, quello era il posto a capotavola, il posto di comando. E spettava solo a Giuseppe Mersiglia.

Ogni muscolo del mio corpo fremeva. Odiavo attendere, soprattutto non sopportavo l'idea di stare chiuso là dentro, in quella sorta di cantina, la prigione che mio padre si era costruito da solo.

Il pensiero che tra pochi minuti dovessi parlare con lui, poi, non faceva che accrescere il mio disagio.

Feci scorrere gli occhi lungo la piccola stanza: un unico tavolo, abbastanza grande, la riempiva quasi totalmente. Di lato c'era un divanetto in pelle nera e in fondo c'erano un lavabo e un gabinetto in marmo.

L'odore di chiuso mi serrava la gola.

A ogni minimo rumore lo sguardo saettava sulla scala di fronte a me. Mio padre aveva deciso di uscire dal suo nascondiglio e farsi una doccia, nonostante tutti gli avessero detto che era pericoloso. Ma lui non ascoltava nessuno, un'altra cosa che avevamo in comune.

Contrassi la mascella e incrociai le braccia al petto, imponendo al mio respiro accelerato di tornare regolare.

Cosa deve dirmi questa volta? continuavo a domandarmi. E perché ci mette tanto?

Ogni volta che mi ordinava di andare da lui da solo, il terrore nel petto sembrava divorarmi. Avevo paura di lui, era inutile negarlo. Questo mi rendeva debole e io odiavo sentirmi così.

La botola in cima alla scala si aprì e lui scese lentamente. Aveva indossato un completo nero, troppo elegante per stare dentro lo scantinato. Il viso tondo, rasato di fresco, era duro e imperturbabile.

Si avvicinò a me e il mio cuore aumentò la velocità. Mi scrutò per un lungo istante, mi sforzai di non rompere quel contatto visivo, quasi lo volessi sfidare. Ma entrambi sapevamo che ci avevo già provato e non aveva funzionato.

Le manifestazioni contro la mafia, la mia fuga di casa da ragazzino... non erano valse a nulla. Alla fine, aveva vinto lui.

Lo avevo lasciato vincere.

Mamma, Angelica. Lo faccio per loro, non posso abbandonarle.

Mi poggiò la grossa mano sulla spalla e si sporse un po' verso di me. I miei muscoli si irrigidirono a quel contatto.

Quelle mani mandavano alla mia mente ricordi di lividi, umiliazione, violenza e dolore.

«Devo parlarti di una cosa, prima che arrivino gli altri» sentenziò serio con quella voce ruvida, in un italiano strascicato.

Mi limitai ad annuire una volta. Lasciò la presa, facendomi tornare a respirare, e girò la sedia accanto a me in modo da guardarmi bene. Poi si sedette.

Il silenzio aleggiò tra di noi per qualche istante ancora.

«Lo sai che questa situazione» iniziò, indicando lo spazio intorno a noi con un ampio gesto del braccio «mi limita e mi rende vulnerabile.»

Vulnerabile. Il grande boss Giuseppe Mersiglia che si definiva vulnerabile. Era la prima volta che gli sentivo pronunciare una parola del genere, ma ciò fece crescere la mia tensione. Iniziai a tamburellare le dita sul braccio.

SYS 2 - La società degli splendenti. il ritorno Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora