15. Di male in peggio

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Quando Annabeth tornò a casa sua, sua madre l'aspettava sull'uscio della porta, cosa strana considerato che a quell'ora avrebbe dovuto essere a lavoro. In quel periodo aveva trovato un posto di lavoro come cassiera in un supermercato lì vicino, che non le dava certo una paga altissima, ma sufficiente per pagare le spese necessarie.

- Aloha makuahine, come mai non sei a lavoro?

- Annie, dobbiamo parlare - disse secca.

Lo sguardo arrabbiato e preoccupato sul volto di sua madre fece preoccupare anche lei. Sperava che non fosse successo nulla di grave, aveva già abbastanza problemi.

- Tesoro, mi hanno chiamato dalla scuola e mi hanno fatto vedere questo - prese il telefono e le mostrò un video che riprendeva lei mentre diceva tutte quelle cose sulla Moyasamu al centro del cortile della scuola.

- Mamma io... io ti posso spiegare...

- Ho già discusso con la preside e mi ha detto del tuo comportamento in questi giorni: hai preso una nota, hai saltato delle lezioni, hai urlato davanti a tutta la scuola. Cosa ti è successo? Dov'è finita la Annabeth che conoscevo io, la mia kaikamahine? Ti ho educata per essere sempre educata, costante nello studio... Fino ad adesso non mi avevi mai delusa.

Annabeth, che aveva lo sguardo rivolto verso il basso, alzò di scatto la testa, guardando la madre:

- La tua bambina è cresciuta, mamma. Sono stanca di essere sempre l'unica perfetta in tutto anche se gli altri non mi apprezzano. Che senso ha tutto il mio impegno se non interessa a nessuno. Sai che cosa sto dovendo passare? Prova a metterti tu al mio posto!

- Io lo so che per te affrontare tutta la storia della morte di tuo padre e del trasferimento è stato molto difficile, ma devi capire che non sei l'unica. Anche se non lo dimostro, anche io sto soffrendo tantissimo. Anche per me è stato difficilissimo prendere la scelta di lasciare la nostra casa a Honolulu. Ma mi dimostro sempre forte e cerco di impegnarmi al massimo per darti la possibilità di avere un'infanzia, una vita migliore. Lo sto facendo per te! Devi smetterla di lamentarti, ora che siamo sole hai un motivo in più per impegnarti, stare tutto il tempo in camera a piangere non ti porterà da nessuna parte!

Annabeth stava per esplodere:

- Una... una vita MIGLIORE?! Ti sembra una vita migliore questa?! Lontana dalla mia casa, dalla mia migliore amica, sola, senza amici, senza nessuno che mi dimostri un briciolo di affetto, vittima di bullismo ogni giorno... L'unico riferimento che avevo era una bambola di porcellana e pure quella mi hanno portato via! Ti sembra una vita MIGLIORE questa?!

La madre guardò la figlia con animo sconsolato, Annabeth riuscì a intravedere nei suoi occhi una lacrima trattenuta, aveva gli occhi lucidi.

- Lo so, nonostante tutti i miei sforzi e tutto il mio impegno non sono riuscita a renderti felice. Mi aveva reso così allegra vederti ridere con quel ragazzo. Ma evidentemente è stata solo un'illusione. Io non sono in grado di offrirti il supporto di cui hai bisogno. Tu necessiti di una figura materna e di una paterna in grado di saperti mostrare il loro affetto. E se io non ci riesco, allora...

Annabeth guardò allarmata la madre, pregandola con lo sguardo di non pronunciare quelle parole.

- Allora... lo farà qualcun'altro.

Una lacrima carica di rabbia scese rapida sul viso di Annabeth, seguita da un'altra e da un'altra e da un'altra ancora. Era già da qualche giorno che aveva cominciato a capire le intenzioni della madre. Le sue continue chiamate, le sue assenze da casa, il modo in cui la guardava nostalgica, come se dovesse dirle addio.

- No, mamma, ti prego.

Si inginocchiò ai suoi piedi e le afferrò disperata il vestito, stringendolo e stropicciandolo.

- La decisione è presa, domani pomeriggio andremo a trovare le famiglie affidatarie che si sono offerte di ospitarti - disse mentre una lacrima rigava anche il suo viso, colandole giù dal mento fin sulla testa di Annabeth, che aveva messo il viso tra le pieghe del vestito, bagnandolo.

La madre cercava di staccarsi da sua figlia, ma lei si aggrappava ancora più disperatamente al tessuto, che era ormai sul punto di strapparsi. Annabeth non voleva perdere anche sua madre, ormai era l'unico punto di riferimento che le restava.

Quando la signora Kailani le diede uno strattone facendola staccare, lei salì di corsa le scale e si diresse nella sua stanza, pronta a inzuppare per l'ennesima volta il suo cuscino, ormai abituato a quel rituale giornaliero.

Mentre si seppelliva sotto le coperte, pensava a quello che le aveva detto la madre. No, non poteva permettersi di perdere anche lei. Doveva trovare un modo per farle cambiare idea. Nella sua testa ripensò a tutta la discussione, cercando qualcosa che potesse aiutarla. Improvvisamente le si accese una lampadina. Sua madre aveva ragione solo su una cosa: stare lì in camera a piangere e a lamentarsi non sarebbe servito a niente. Doveva agire.


6. kaikamahine: bambina/figlia. 

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