39.White.

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'This is the start of something beautiful,

this is the start of something to new.'

This, Ed Sheeran.

White


Bianco.
Minuti, ore, giorni, forse addirittura mesi o anni a esagerare, che vedevo solo ed esclusivamente bianco.
Non sapevo se ero morta, i miei polmoni e il mio cuore erano come spariti, così come i miei arti, che sentivo attaccati a me stessa, ma s'erano come volatilizzati.
Anche i ricordi erano scomparsi, tanto avvolta dal bianco in cui ero. Se non ero morta, potevo sperare che non soffrissi d'amnesia, perché il fatto di non ricordare nulla della mia vita mi terrorizzava. Mentre se ero morta, non me ne preoccupavo molto, infondo, ero morta, no? Non dovevo rimpiangere le persone che soffrivano per me sul mondo, non dovevo nulla e cosa più bella, non sapevo se avevo sofferto o no nella mia vita precedente, il che, implicava che potevo immaginarmi tutta una vita rose e fiori, senza nemmeno un accenno di dolore.
Per quel tempo, sognai che ero una ragazza, non so cosa mi fece supporre d'essere donna, ma c'era qualcosa nel mio cervello, se esisteva ancora ovvio, che mi sussurrava che ero una ragazza, sognai d'essere una giovane donna con i capelli castani e gli occhi d'un verde scuro, anche questi suggeriti dal mio cervello, che correva in riva al mare a braccia spalancate, senza pensieri.
Non c'era nessuno a guardarmi, solo il mare e il cielo, poiché non ricordavo nessuno, era bene che immaginassi solo me stessa.
Naturalmente, se ero viva, un po' mi dispiaceva abbandonare quel sogno, e un po' avevo anche paura di svegliarmi, cosa m'aspettava oltre quel bianco? Talmente tanta felicità da render la mia vita monotona oppure così tanta sofferenza da vivere solo nel male?
Poi, c'era qualcuno che m'amava? Mi rispondevo di sì, perché non si è mai soli, c'è sempre qualcuno che ti guarda da lontano, e ti ama.
Basta capire chi è questo qualcuno.
Mi ponevo un casino di domande, alternandole a quel sogno, e intanto i minuti, le ore, forse i giorni e i mesi, passavano.
Alcune volte credevo di sognare anche, il bianco in cui ero avvolta si trasformava vagamente in qualcosa, che riuscivo a malapena a interpretare.
La prima visione era una stanza grigia, con un tavolo e sopra appoggiato un coltello.
Ragionai sul coltello, eccitata ed emozionata al tempo stesso, per aver scoperto qualcosa di me, ma anche timorosa poiché il coltello è un arma, e causa male.
Ma potrebbe essere anche un'arma difensiva, forse m'ero riuscita a difendere da qualcosa, o qualcuno.
La seconda volta sognai un uomo, non seppi definirlo molto bene, in quel caso il bianco si trasformava in una nebbia fitta che non mi permetteva di vedere bene, ma distinsi delle spalle larghe, un torace ben messo e gambe muscolose, l'uomo reggeva tra le mani un coltello.
Era lo stesso coltello che avevo visto sul tavolo, in quella stanza grigia.
Scoprii che quell'uomo aveva abusato di me, rivissi sulla mia pelle quelle ore di tortura, il mio urlare, il sangue che sgorgava a fiotti dal mio fianco, il suo respiro affannoso e roco, il dolore.
In quel momento volli svegliarmi e urlare, ma non possedevo bocca per gridare, nemmeno occhi per aprirmi una porta al mondo. Probabilmente la mia mente non era ancora pronta a vivere, oppure doveva mostrarmi dell'altro riguardo la mia vita.
Ebbi la pazienza d'attendere un'altra visione, d'altronde, che altro potevo fare? Il bianco, d'un botto, era diventato il mio migliore amico.
Avevo lasciato la ragazza che correva sulla spiaggia con una punta d'amarezza, ma anche con un po' di felicità, sapevo che quella ragazza ero io.
Il bianco era il mio migliore amico, non che avessi molto da raccontargli, ma il solo pensare che c'era quella cosa a tenermi compagnia in quella sottospecie di paradiso, mi faceva sentire più calma.
Imprecavo contro il bianco per quell'uomo che aveva abusato di me, chiedendomi chi era.
Il bianco rimaneva lì, impassibile, forse ascoltandomi, ma non dandomi nessun indizio o aiuto, non mi disperavo. La disperazione era una delle ultime cose che volevo andare a cercare, se ero davvero morta, non volevo assolutamente essere disperata per il resto della mia eternità, mentre se ero viva, non dovevo vivere il resto della mia vita nella disperazione, per il semplice fatto che non avrei vissuto realmente.
Così, aspettai.
Dopo minuti, ore o giorni, anni forse, la risposta m'arrivò.
Erano ricordi da bambina, lo sapevo perché percepivo quell'aura come se tutto fosse bello, come se niente si potesse danneggiare, c'era qualcosa di innocente nei miei pensieri.
E chi era più innocente se non un innocuo bambino?
Ricordai il grembiulino nero che usavo ad andare a scuola, la faccia storta di mia madre che me lo scrutava dopo un giorno d'intenso lavoro con le tempere, ma poi sorrideva e mi dava una leggera carezza sulla guancia.
Una casa in aperta campagna, poco distante da un mare talmente trasparente da sembrare invisibile, dominava la mia testa, un altro ricordo, il luogo dove abitavo probabilmente; sovrapposto a questo, v'era una villa grande, con le pareti bianco ghiaccio e un'edera verde a farle da corona, un vialetto in sassi con al centro una piccola fontana con una statua delfinata, e una donna.
Una donna forte, con un sorriso sincero sul viso. Un sorriso che ti dava forza, determinazione, aveva i capelli ingrigiti per gli anni e un portamento da vera signora.
La chiamavo nonna, e avevo come l'impressione ch'era l'unica della famiglia realmente a capirmi.
Poi arrivano due bambini, prima una bambina, Page, avevo quattro anni e dopo dieci anni, arrivò Met.
I ricordi mi giungevano separati ed era un impresa legarli assieme da quel filo conduttore, ma dato che appartenevano a me, c'era sempre qualcosa che m'aiutava a sistemarli nel giusto ordine.
Bianco.
Era in quelle soste che mi preoccupavo di mettere in ordine la mia vita, costruendo un filo logico. Non avevo scoperto ancora chi era l'uomo che abusava di me, ma avevo un vago sospetto. In tutte le visioni che avevo avuto, non compariva mai mio padre, il che, mi faceva pensare con un bel po' di ribrezzo, ch'era lui il mostro.
Difatti fu così.
Ricordai che mia madre uscì con Page per una passeggiata al parco, poi venne il tocco forte di mio padre sulla mie cosce da bambina. Le sue mani grosse che strappavano i miei vestiti e li buttavano in un angolo. I suoi grugniti, il mio urlare.
Il coltello, e la cicatrice. La luce ch'era la mia unica speranza in quella stanza grigia, su quel tavolo.
E mi chiesi com'era possibile che esistessero persone così al mondo, ma soprattutto com'era possibile fare del male alla propria figlia.
Percepii nei miei ricordi di bambina tutto l'odio che avevo nei suoi confronti, il ribrezzo che provavo quando baciava e sorrideva a mia madre, durante la cena, la maschera che portava nella vita quotidiana mi faceva letteralmente schifo.
Era un lurido schifoso, non poteva avere nemmeno un nome una persona di quel genere.
Ricordai che il mio odio verso di lui, crebbe quando anche mia sorella entrò nelle sue mani.
Le parole dolci che sussurravo a Page una volta che lui aveva finito, le mie piccole mani che asciugavano le sue lacrime e toglievano il sangue con delle pezzuole, i sorrisi tirati che le rivolgevo e la disinvoltura con cui abbracciavo mia madre una volta tornata a casa.
L'ultima volta che abusò di me avevo sedici anni, durante quella visione mi domandai quanti anni avessi, e ricordai che quando ebbe finito sgattaiolai fuori casa e picchiavo qualcuno.
Purtroppo il bianco offuscò l'immagine del mal capitato, ma sentii una voce squillante, acuta.
E in quell'istante fui felice di sapere che, forse, avevo ancora le orecchie.
Le visioni mi mostrarono Louis nella miglior sfumatura della parola. Il nostro rapporto, il fatto d'essere come il sole e la pioggia, uno l'opposto dell'altro, uno la roccia dell'altra.
Accantonai il bianco come migliore amico, perché ora sapevo che ne avevo uno.
Un migliore amico che m'amava e sapeva cosa m'era successo. Successivamente scoprii che anche mia nonna era a conoscenza di cosa m'era accaduto, e compresi perché era l'unica di cui mi fidavo.
Mia madre durante gli anni era divenuta sempre più isterica e incomprensibile, frettolosa, premurosa.
Non la sopportavo, e poi era innamorata follemente di mio padre, se gli avrei detto ciò che m'aveva fatto, anche come prova la cicatrice sul fianco, non ne sarebbe valsa la pena, avrei causato solo un'enorme litigata.
Quindi, mia nonna era l'unica della famiglia che potesse aiutarmi.
Non avvisammo la polizia, sempre per la questione di mia madre.
A quei ricordi oscuri, si sovrapponevano ricordi lievi, come quando la neve cade senza rumore sul selciato. Erano belli, almeno portavano un po' d'allegria a tutto il mio passato.
Il primo bacio, le feste di compleanno, e la musica.
La musica che m'era sempre accanto. Gli abbracci di Louis, la testina di Met appoggiata al mio petto.
Le giornate passate a scuola, o i pomeriggi in riva al mare.
Le poche volte ch'avevo sentito Louis suonare il pianoforte.
Ricordi che anche se non avevano nulla di particolare, mi facevano sorridere, sempre se avevo una bocca, ovvio.
Bianco.
Un secondo, un minuto, un'ora o forse giorni dopo, percepii qualcosa di strano.
Un odore diverso, pulito e aspro al tempo stesso.
Disinfettante. Mi suggerii il mio cervello.
Feci mente locale: avevo un naso!
Oltre a quell'odore acre, sentii il profumo di qualcosa di soave.
Fiori. Proruppe il mio cervello.
Ospedale. Concluse.
Mi trovavo in ospedale, ma almeno ero viva. Credevo poco che un morto sarebbe in grado di percepire gli odori, e quindi di respirare. Perché è inspirando ed espirando che percepisci gli odori che ti stanno intorno.
Ero viva, esistevo davvero.
Forse ero persino scampata alla morte, ma, la mia mente non voleva ancora che riprendessi a vivere, forse doveva informarmi del perché ero lì, infondo i ricordi si fermavano a quando avevo sedici anni, e qualcosa, mi diceva che ne avevo qualcuno in più.
Diciotto.
Annuii dentro me stessa, ancora due anni da scoprire.
La prima visione che ebbi dopo aver scoperto il piacere del profumo dei fiori, fu una biblioteca.
Una biblioteca e un ragazzo biondo.
Qui i ricordi erano più vividi e compresi che erano successi da poco. Ricordai la stradina dove si trovava la biblioteca, e pensai che era molto simile a 'Diagon Alley' di Harry Potter, negozi sbarrati, infissi verdi, locandine grandi e niente roba digitale.
La biblioteca mi comunicò un qualcosa di grande, come se tutto iniziò da lì.
E compresi, che la mia vera storia iniziò proprio da lì.
La visione era come un film unico, senza precedenti. Non c'erano più pause sommerse nel bianco, solo immagini e pianti, sorrisi e frustrazioni.
Scoprii il doppio lato di Niall, il fatto che sembrava un piccolo diavoletto con quel sorriso e quelle iridi azzurre mozzafiato, compresi la sua dolcezza e la sua disponibilità.
Riconobbi Laila e la sue spensieratezza, la sua storia e la forza d'animo che ha avuto sempre in grembo. Mi chiesi se aveva superato il test per entrare in università.
Kimberlee, pensai che sembrava un vero semaforo con quei capelli rossi, e il suo sorriso mozzafiato, la sua disponibilità nell'aiutare gli altri.
Ricordai Liam e Rachel, una coppia perfetta, senza problemi, quei due erano il polo sud e il polo nord, collegati dal meridiano di Greenwich, la reincarnazione del perfetto amore.
Poi fu la volta di Harry. Ora che sapevo ch'avevo un cuore, lo sentii martellare talmente tanto forte nel mio petto da sconvolgermi io stessa.
La nostra storia, con quei baci bruschi e insignificanti, il prestito che gli feci per rimanere in casa sua, le carezze che ci siamo scambiati.
Quella notte, la sua storia.
Il bianco s'era trasformato in una specie di sole quando nella mia testa compariva una sua immagine, e sentivo il cuore ridere.
Mi ricordai che l'avevo ferito nell'orgoglio quando scoprì del prestito, una cosa che mi sarei occupata di sistemare quando avrei riaperto gli occhi.
Ricordavo, però, che era stato lui a prendermi in braccio e portarmi all'ospedale, secondo lui non riusciva mai ad arrivare in tempo per salvarmi, era in questo che si sbagliava. Lui era entrato nella mia vita come un trapano e aveva inciso il mio cuore con un chiodo, e da quella volta, lui era sempre con me, non importava quanto c'avrebbe messo ad arrivare, lui prima o poi sarebbe venuto, e finché avevo quel chiodo puntato nel cuore, nessuno poteva uccidermi, nemmeno una miriade di calci.
Harry non era mai stato in ritardo, mai.
A quel ricordo, compresi il perché ero finita in ospedale.
Gli enigmi, la paura e Met.
Mentre rivivevo quei momenti, mi diedi della stupida da sola per non aver chiesto aiuto, molto probabilmente avevo così tanta paura da non rendermi pienamente conto della situazione.
Così, ricordai di Kyle, Natan e Crew.
Mi chiesi cosa fosse accaduto una volta ch'ero svenuta.
Nella mia mente entrò l'immagine di Zayn, capii che lui aveva abbandonato suo fratello per venir a salvare me e Kimberlee, pure Met.
Zayn era uscito dall'oblio in cui era caduto, portando finalmente alla luce la sua natura ombrosa e razionale.
Dopo quest'ultima visione del moro, percepii una bocca secca, arida, bisognosa d'acqua.
Un paio di palpebre chiuse, come se fossero sigillate da colla.
Un petto nudo alzarsi e abbassarsi regolare, il respiro che m'usciva dal naso.
I polmoni pompare aria tranquillamente, e un cuore battere forte, vigoroso.
Le gambe indolenzite per la postura sdraiata, poi, l'osso sacro che mi doleva, ma il maggior dolore era alla clavicola, sentivo che era rotta, o qualcosa di simile.
Il mio corpo era ritornato a vivere.
Un po' mi dispiaceva lasciare il bianco, era stato il mio migliore amico per secondi, minuti, ore o forse giorni, anni magari.
Sapevo che però quel bianco, l'avrei rivisto tra un bel po' d'anni, ad accogliermi come si deve e non per un semplice coma, ma come un migliore amico aspetta la proprio migliore amica.
Gli lasciai un bacio vuoto, ma ricco di significato.
La luce bianca nella mia testa si dissolse pian piano, come quando le luci si spengono in una sala cinematografica, piano e senza rumore.
Il bianco prese il posto del nero, e seppi che erano le mie palpebre chiuse.
Aprii gli occhi e costatai quanto mi fossero mancati gli altri colori.
Benché fosse notte inoltrata, erano le tre, così segnavano i numeri rossi della sveglia posta sul comodino, amai il blu della notte, la luna bianca con le sue imperfezioni più scure, le quali sono i crateri.
Oppure le ombre verde scuro degli alberi, e le lucine bianche delle stelle.
L'azzurro del mio copriletto, oppure il pigiama che avevo indosso, o il bianco delle lenzuola, così come il pavimento.
Sorrisi nel buio, felice di ritornare a vedere, sentire i passi degli infermieri nel mio corridoio, annusare i fiori.
Felice.
Mi tolsi la coperta della gambe e notai una montagna di lividi viola sugli stinchi, a quanto pare non erano né passati anni né mesi, solamente pochi giorni.
I lividi erano viola con quel contorno giallognolo, nonostante il brutto aspetto, non mi facevano male.
Scoprii che se cambiavo posizione, nemmeno l'osso sacro mi faceva male, fortunatamente non era rotto, immaginai non fosse rotta nemmeno la clavicola, poiché non era fasciata e non vi era stato applicato nessun unguento, forse s'era solo slogata e meritava un po' di santissimo riposo.
M'accorsi ch'avevo una fascia intorno alla testa e una volta toccata con un tocco lieve la parte in cui Kyle mi diede l'ultimo pugno, milioni di stelline diedero vita nella mia testa, causandomi un dolore acuto.
Sollevando la maglietta notai che avevo dei lividi anche sulla pancia, ma come quelli sugli stinchi, non mi facevano male.
L'unico segno di garza, era sul fianco.
Un conato di vomito mi salì per la gola al ricordo, ma lo cacciai giù e abbassai velocemente la maglietta.
Feci mente locale, l'ultima volta che Kyle m'aveva picchiata, ero stata in convalescenza due giorni, nel letto di Niall, questa volta, i danni erano più gravi e quindi, dovevo essere rimasta in coma qualche giorno. Forse quattro.
Il mio occhio percorse le pareti della camera, non c'era nessuno, molto probabilmente le mie condizioni erano ottime e non c'era da preoccuparsi, sarebbero tornati domani mattina.
Individuai un cartello con scritta una data.
17 agosto.
Forse era la notte del diciotto, oppure avevano già cambiato giorno.
Nonostante ciò, avevo fatto quattro giorni di coma, e il bianco un po' mi mancava.
Mi sorpresi della stanchezza che comparve nel mio corpo, così optai di non preoccuparmi per il giorno, convinta che l'indomani avrei saputo tutto.
Mi coprii con la coperta e chiusi gli occhi, m'addormentai nel giro d'un nano secondo.



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Salve miei cari lettori e buona domenica! Non ho parole da aggiungere su questo capitolo, le lascio tutte a voi. A presto, Sara.





ONSET II h.s.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora