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Michael Pollan credeva in sé stesso e la riteneva una delle sue migliori qualità. Certo non escludeva la sua bellezza, cui si dedicava costantemente.

Però nel suo cuore, in quella parte dove viveva il Michael bambino, sognava da tutta la vita che anche gli altri credessero in lui.

Il piccolo Michael, a otto anni, sognava di diventare il futuro presidente degli Stati Uniti. Ci aveva creduto fermamente, allo stesso modo in cui credeva alla Befana e a Babbo Natale. A scuola scrisse un tema bellissimo dove descriveva con cura il suo futuro politico. I suoi voti non erano brillanti ma Michael era bravo a parlare al pubblico, ad affascinarlo.

Credette nel suo sogno fino a quando in seconda media arrivò il momento della recita di fine anno. Michael imparò con cura la sua parte dello spettacolo. Interpretava un albero della foresta che aiutava una principessa smarrita a tornare a casa.

Si accorse dello scherzo crudele che gli avevano fatto quando fu troppo tardi, ed era già in scena. Qualcuno, sicuramente uno dei bulletti che amavano tormentarlo, gli aveva disegnato una vagina tutta rosa sulla corteccia.

Nella platea molti dei genitori sghignazzarono, bisbigliando tra loro.

Come se la "privacy" data dal buio della sala, rendesse più facile e meno orribile ridere di un bambino su un palco.

Nessuno ascoltò Michael recitare le sue battute. Michael però proseguì con fierezza, guardando il riflettore puntato su di lui come se fosse il fascio di una bellissima stella.

L'insegnante, miss Annie, mortificata salì sul palco e lo trascinò via per un braccio dietro le quinte. Solo allora Michael capì di che cosa ridessero tutti.

Miss Annie incollò alcune foglie finte a coprire il disegno osceno, ma Michael non voleva comunque finire la recita.

«Non far sì che vincano, Michael» gli aveva detto miss Annie asciugandogli gli occhi. Ma le lacrime erano sgorgate come la piena di un fiume, inarrestabili.

Michael era abituato ai bisbigli e alle risatine quando passava nei corridoi. Quel tormento era diventato un abitudine per lui ma non ne capiva il motivo.

Suo padre dopo quel giorno cambiò. Già da un po' non lo guardava allo stesso modo di sempre. Michael sentiva il suo disprezzo anche attraverso i muri di casa, nei suoi silenzi, nei suoi sguardi.

E così quel sogno di ragazzino svanì, crescendo si accorse che non veniva preso sul serio. Spesso gli altri si sentivano in diritto di fare battute e prenderlo in giro. Così iniziò a dare loro ciò che volevano, vestiti sgargianti e modi eccessivi.

«Ma oggi non più» disse Michael guardandosi allo specchio.

«Non far sì che vincano».

Guardò dalla finestra, giù nella strada. Pie Town era diventato il suo rifugio da formica, un posto dove dimenticare la vita superficiale di prima, a Manhattan. Era stato facile uniformarsi agli altri gay che frequentava laggiù, come se non potesse essere soltanto sé stesso ma dovesse far parte di qualcosa.

A Pie Town invece non era considerato strano, solo originale.

Michael si era sentito accolto, non come un diverso ma come una rarità.

Il primo giorno nella sua nuova casa Patty gli aveva portato la sua famosa torta e quando aprì il suo Museo in molti gli avevano regalato delle cassette di pesce fresco.

Presto ci sarebbero state le elezioni cittadine, che avrebbero coinciso con la Festa del 4 luglio, che avrebbe coinciso con la visita annuale (e obbligata) dei suoi genitori.

Sua madre trascinava suo padre come un ciuco lungo una mulattiera, per andarlo a trovare quell'unica volta all'anno.

Michael guardò il suo gatto, Aaron Carter, fare un bagno di sole sul davanzale della finestra. L'aveva trovato in un giorno di pioggia, solo e affamato.

Ora era uno splendido gattone di casa.

«Questo è lo spirito giusto!» esclamò Michael.

Era così felice che si sarebbe azzardato ad entrare di nuovo nel regno infernale dei cappuccini di Starbucks. 

Prese il suo binocolo e si mise a spiare Tom.

Al bancone con lui c'era lo stesso ragazzo della maratona.

I due ridevano e tubavano assieme come due colombe orrende. Orrende!

Michael lanciò il binocolo sul letto contrariato, Aaron Carter si dileguò pensando all'ennesima crisi di nervi.

Gliel'avrebbe fatta vedere lui a Tom, non avrebbe mai più bevuto lattosio per nessuno.

Nessuno!

Maratona a Pie TownDove le storie prendono vita. Scoprilo ora