Capitolo trentaquattro

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                                      MATTIA

«Dai, smettila di fare quella faccia. Che ho detto di male? Puzzi un po', tutto qui» minimizza pure con un'alzata di spalle.

Ok, devo ritrattare, è perfino peggio di una strega.
Per un attimo però mi balena una strana idea in testa e anche se non penso si riferisca a quello la tiro fuori.

«Ma... nel senso che ti do un po' la nausea?»

E nonostante abbia voluto assumere un tono indifferente, credo sia trasparita comunque una certa dose di speranza nell'inclinazione della voce. Sarebbe fantastico se intendesse dire che mi desidera. Coglierei l'occasione per trascinarla sotto la betulla bianca e non le darei più modo di fiatare, impegnando la sua bocca in ben altre mosse.

«Ma no cretino, quale nausea! Tu puzzi proprio» precisa.

Ho una dannata voglia di issarla sulle spalle, portarla in un posticino isolato e farle una bella sculacciata. Ma l'idea di avere il suo culo a portata di mano, mi suscita subito ben altre idee, decisamente meno violente e molto più maliziose. Meglio evitare.

«Dico davvero!» ripete, visto che io non mi degno di replicare alla sua offesa.

Del resto non so che diamine potrei ribattere a una simile sciocchezza.

Abbasso un po' il capo, cercando di avvicinare il naso al collo, contorcendomi come una giraffa, poi mi annuso, neanche fossi davvero un dannato cane. Inspiro a pieni polmoni, magari ho davvero un odore sgradevole, tuttavia non noto nulla di strano.

«Non puzzo. Si può sapere che cazzo dici?» sbotto, eppure nonostante sia abbastanza irritato, mantengo comunque un tono basso. Non voglio risultare troppo scontroso, vorrei capire perché si sta comportando così.

«Hai fumato e pure tanto. Vuoi negarlo?»

Mi punta l'indice sul petto, fissandomi con aria di sfida.

Alzo gli occhi al cielo.

«Tutto questo casino per un po' di tabacco?»

Mi do un buffo sulla fronte e sorrido addirittura. Mannaggia a me che continuo a darle retta, mi sta facendo ammattire sempre di più.

«Un po' di tabacco? Si sente anche da qui» afferma, severa.

Dio che palle. Sarei tentato di strangolarla. Non solo la sto aspettando da un'ora a terra, abbandonato a me stesso, peggio di un clochard, devo pure sorbirmi una ramanzina perché nell'attesa non avevo un cazzo da fare e ho fumato. Sospiro, preferendo lasciar cadere l'argomento o, conoscendola, stiamo da qui a domani a ripetere tu puzzi, io non puzzo, come due cretini. È così caparbia che dubito lascerebbe cadere l'argomento senza contraddirmi.

«Com'è andata oggi?»

«Come mai non sei venuto a scuola?»

Possibile che debba sempre glissare sulle mie domande? Mi chiedo quando diventerà più docile e meno battagliera con me. Sarebbe un sogno avere una conversazione senza azzannarci.

«Ti sono mancato?»

Le accarezzo con l'indice la gota e mi accorgo che per un attimo si immobilizza, trattenendo il fiato.

Sorrido in modo dolce. È palese che sia attratta da me, prima o poi la costringerò ad ammettere che non mi considera un amico. Stavolta vorrei che fosse lei a cedere, non mi va di fare sempre la figura del bamboccio che le ronza intorno. Anche se purtroppo è la pura verità. Scodinzolo proprio come un carlino, con quell'aria penosamente corrugata, ronfandole dietro.

«Non ci sperare» replica con un'alzata di spalle.

Non mi lascio scoraggiare dalla sua risposta.

«E allora com'è che ti sei accorta che non c'ero?»

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