Capitolo cinquantuno

24 9 2
                                    


RESIA

I giorni dopo la gita scolastica sono stati un completo disastro.

Ero arrabbiata con Mattia perché ancora una volta si era intromesso nella guerra con la bagascia e, come se questo non bastasse, si era dovuto pure sedere accanto a lei durante il viaggio di ritorno, lasciandomi in compagnia di quella stronza della sorella.

Li ho tenuti sotto controllo tutto il tempo e so che katiuscia provava di continuo a importunarlo, mettendogli, più di una volta, le mani addosso. Avrei voluto mozzargliele una ad una quelle dita e vorrei farlo tutt'ora. Mai avevo sentito una sensazione simile aggredire così violentemente il mio basso ventre. Ero gelosa e quel nuovo sentimento, nei giorni successivi mi ha divorato completamente, sostituendo ogni altra emozione.

Ho scoperto una cosa fondamentale: ciò che è mio, è mio e non si tocca e io non le avrei mai permesso di soffiarmi sotto al naso il mio ragazzo. Ecco perché sono stata fredda con lui e ho progettato la mia ennesima vendetta contro di lei. Mi sono comportata in modo infantile e Mattia, a sua volta nervoso per il mio atteggiamento, non ha fatto nulla per farmi sbollire la rabbia, peggiorando, giorno dopo giorno, il mio umore.

Poco affetto, zero dialogo, saluti e scambi di battute asciutte, per nulla paragonabili alle lunghe chiacchierate che facevano e neppure un bacio. Nulla di nulla. Nessun contatto fisico. Mi sono sentita uno schifo, so che è colpa mia e che stavo esagerando ma sono testarda e non volevo ammetterlo, non prima che il mio scherzo alla bagascia andasse a segno, perché quell'altro colpo ero sicura che l'avrebbe fatto incazzare nuovamente.

Insomma a che serviva far la pace con lui se poi mi avrebbe portato un'altra volta il muso?

Dopo essermi procurata l'occorrente per il mio piano, ho aspettato con pazienza il momento giusto per colpire. Durante l'intervallo c'è un preciso momento in cui quelle due sciagurate fanno la loro rivoltante sfilata, atteggiandosi e gracchiando fastidiosamente. Io aspettavo proprio quello. Sapevo che Mattia e Federico non sarebbero stati presenti per via di un compito in classe e così, con la complicità di Giulio e Diana ho organizzato la mia vendetta.

Ancora ricordo la faccia delle due gemelle che più e più volte hanno provato ad alzarsi ma ogni volta scivolavano, rovinando di nuovo sul pavimento viscoso. Prima del loro passaggio avevo rovesciato talmente tanta di quella roba untuosa e trasparente che quelle serpi hanno dovuto strisciare fino alla ringhiera per rimettersi in piedi. È stata una vera e propria goduria ascoltare le loro urla isteriche mentre arrancavano verso la loro meta. Non sono stupida, non volevo che altri si facessero male, infatti i miei compagni facevano da sentinella ai lati opposti del corridoio, accertandosi che nessun eccetto loro si arrischiasse in quell'improvvisata pista di pattinaggio.

Quelle due megere erano il mio solo bersaglio.

Dopo quel brutto tiro, ho impiegato giorni per ricostruire un rapporto civile col mio fidanzato perché quando ha saputo dell'accaduto non mi ha rivolto la parola per ben due giorni e in quelli successivi è diventato così odioso che avrei voluto prenderlo a sberle da mattina a sera.

Su una cosa rimuginavo giorno e notte e ahimè per quanto mi sforzavo non mi andava proprio giù: sapevo che Mattia aveva maledettamente ragione!

Quella guerra era irrazionale e io mi comportavo esattamente come una bimba capricciosa, solo che non desideravo darla vinta a quelle due e non l'avrei mai fatto, anche a costo di risultare infantile ai suoi occhi. Volevo che Mattia lo accettasse una volta per tutte, perché io volevo stare con lui, ma volevo anche dare battaglia alle figlie della preside.

«Dobbiamo parlare» Enuncio il settimo giorno, durante l'ennesimo intervallo in cui il mio fidanzato mi ignora.

Sono stanca di tollerare oltre questa situazione. Onestamente non so neppure più se siamo ancora fidanzati e a me non sta bene perché io rivoglio il mio ragazzo. Quello attento a me. Quello che ha dormito accanto a me dopo la mia prima sbornia. Quello che quando mi bacia, mi toglie il respiro.

«Sto parlando con te...»

Gli punto il dito contro. Nessun segno di vita. Non mi guarda neanche in faccia.

Mi sgranchisco la voce.

«E va bene... Hai ragione tu, la smetti di fare lo stronzo?» aggiungo, stizzita.

Finalmente solleva il volto e punta i suoi zaffiri verso di me, spilluzzica un altro pezzo di quell'involtino patate e prosciutto anche se non sembra avere molto appetito.

Io non ho neppure aperto il sacchetto di patatine, ho lo stomaco chiuso.

«Ah, sì?»

Inarca il sopracciglio con aria strafottente, poggiandosi alla ringhiera alle sue spalle. Siamo nell'angolino in cui sostiamo sempre durante la ricreazione con tutti i nostri amici. E pare che adesso anche loro siano maledettamente interessati al nostro discorso perché hanno smesso di mangiare e mi guardano con aria interrogativa.

Ebbene sì, i panni sporchi si lavano proprio in famiglia.

«Sì.»

Fa una smorfia col viso.

Gli farei una faccia di schiaffi, ma poi gli darei altrettanti baci.

«Avete sentito? Ho ragione. Che grande scoperta!»

Sbuffo. È proprio odioso. Per fortuna nessuno dei nostri compagni gli da corda, non sarei affabile pure con loro se osassero contraddirmi.

Mattia chiude l'involtino in un sacchetto con aria tronfia e lo cede al suo braccio destro; quell'altro sciagurato che ormai sta incollato alle sottane della mia amica. Dopo quel bacio alla gita, sembrano cane e gatto ma non si perdono di vista un attimo. Sono sicura che fra un po' sboccerà una nuova coppia.

«Vieni» ordina laconico.

Si allontana senza neanche attendere una risposta. Sono tentata di farlo andar via da solo ma sono pure stanca di bisticciare e ho una voglia matta di rincorrerlo e abbracciarlo.

Mi manca. Non ne posso più!

Ci fermiamo nell'angolo opposto, quello dove mi conduce ogni volta che abbiamo un problema, stavolta però l'ho seguito volontariamente non mi ha trascinato per il braccio o sulle spalle, in modalità sacco di patate. Facciamo progressi.

«Una settimana. Sette dannati giorni per ammettere che hai fatto una cazzata. Più d'una in realtà.» Sbraita, con durezza.

Non mi piace che mi faccia la paternale. Ho ammesso di aver sbagliato, non c'è bisogno di trattarmi una merda. Mi sento già in colpa.

«Sembri mio padre.»

Ci guardiamo in cagnesco.

PastDove le storie prendono vita. Scoprilo ora