39 ; (ain't) my fault.

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Lorenzo mi guarda accigliato mentre mi affretto a fare le valigie. Appena siamo riusciti a cambiare il volo, ci siamo precipitati in hotel a fare i bagagli. Tutti i miei amici, per soliedarietà, hanno deciso di accompagnarmi.

«Non è colpa tua», mi ripete, per l'ennesima volta da quando gliene ho parlato. “Sì che è colpa mia. Faccio un casino dietro l'altro, e un caro amico è finito all'ospedale. Cosa succederà adesso? Sono una granata.”

Lo ignoro. Piego le mie magliette con molta ansia e diligenza. Quella di questa mattina con Sascha è ancora bagnata, ma Lorenzo non mi chiede niente. Mi affretto a metterla nella bustina dei panni sporchi.

Una volta pronti, ci dirigiamo nella hall. Ci sono tutti, tranne Adele e Alberico. Li aspettiamo per quasi un quarto d'ora, poi finalmente arrivano.

Raggiungiamo l'aeroporto in due taxi diversi. Aspettiamo l'arrivo del nostro aereo, poi facciamo il check-in e ci accomodiamo, per ironia della sorte, negli stessi posti dell'andata.

Lascio Los Angeles con molti rimorsi. Poteva andare meglio, ma è andata peggio. “È solo colpa mia”, mi ripeto come se fosse un mantra. Mi addormento con queste parole in testa.

***

Lo scalo a Londra mi schiarisce un po' le idee. Ho fatto tanti sbagli, ma non è detto che sia per forza colpa mia. Le cose si fanno in due, no?

Esito, prima di entrare di nuovo nell'aereo. Forse sarebbe più facile non salirci e restare lì, nell'aereoporto di quella città a me sconosciuta, e lasciarmi alle spalle tutti gli sbagli che ho commesso.

Ma salgo lo stesso sul volo per Roma. Mi accomodo silenziosamente al mio posto; Lori dorme. Decido di guardare un film sul tablet che ha fornito la compagnia aerea, e dopo qualche titubanza scelgo ‘Città di Carta’, tratto dall'omonimo romanzo di John Green.

Lo finisco e faccio in tempo a guardare solo la prima parte di ‘Lo Hobbit’, perché poi atterriamo.

Sempre in due taxi, andiamo dritti a casa mia. Mia madre, mio padre e Stefano non ci sono, c'è solo Mattia, al quale ho già spiegato la situazione. Lasciamo tutti i nostri bagagli nella mia camera e ci dirigiamo a piedi all'ospedale, perché non è troppo lontano da casa mia.

Un'infermiera ci accompagna in sala d'attesa. «Potete entrare solo tre per volta», ci avverte, e poi sparisce da dove è venuta.

I primi ad entrare siamo io, Lorenzo e Sascha. Mi sento asfissiata tra loro due, ma fortunatamente c'è David.

Quando vedo in che stato è la sua faccia, sussulto. Non pensavo che Valerio fosse capace di tanto. «Dav», esclamo, e mi avvicino piano. Non so se toccarlo o meno, quindi mi limito ad accarezzargli i capelli. «Mi dispiace», aggiungo, e tento di reprimere le lacrime.

David sembra rilassato. Mi sorride, per quanto possa essere capace di farlo, sotto tutte quelle bende. Si irrigidisce quando è Lorenzo a parlare.

«Che bisogno c'era di ridurti così? Sono io quello che vuole, perché prendersela con te?»

Immagino Lori picchiarsi con Valerio: non sarebbe proficuo. Probabilmente Sascha pensa la mia stessa cosa, perché lo vedo sorridere. Lo stomaco mi si stringe. “Quanto vorrei assaporare di nuovo quelle labbra...” Scuoto la testa e torno a David.

«Ho lasciato Martina», mi dice lui, con un filo di voce. Vorrei che non parlasse, non sembra fargli molto bene. «Valerio stava girando sa quelle parti, ha sentito ed eccomi qua.»

«Lo sappiamo, David», replica Sascha. «È solo un testa di cazzo, che se mai dovessi beccare-;»

«Un testa di cazzo come te.»

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