38. Hallelujah

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CAPITOLO 38

Hallelujah*


Harry

Dovevo solo ringraziare Nick se in quel momento, dopo circa undici ore dalla telefonata di mia madre, mi trovavo a Londra. Aveva fatto tutto il possibile affinché potessi usare il suo biglietto. Lui era rimasto a New York con la promessa che, appena possibile, sarebbe volato a Brighton, ma verosimilmente non avrebbe mai fatto in tempo per il funerale. Onestamente poi, per quanto potessi essergli grato, non sapevo se avevo voglia di rivederlo lì, di trovarmi anche lui dentro a quel passato da affrontare tutto in una volta. L'unica persona che potevo volere, non ci sarebbe mai stata semplicemente perché non era più la stessa. Dovevo farmene una ragione.

Partii con l'intenzione di non tornare, partii con l'idea che nessuno avrebbe davvero sentito la mia mancanza, con la consapevolezza che forse, quel nuovo mondo coraggioso, non era fatto per me. Perché se non era destino, se il karma mi aveva fottuto a secco, la colpa era anche mia.

Misi poche cose in una valigia, tanto non mi importava di cosa avrei lasciato indietro, non degli oggetti perlomeno. Quello che avrei perso in quella casa, quello che avrei abbandonato senza ritrovarlo mai più, era quel ricordo del sorriso di Zayn nel vedere il mio frigorifero pieno per la prima volta, i libri letti a luci soffuse, la sua musica nell'impianto stereo e poi il mio Louis. E anche se di quei ricordi ne avrei tenute delle copie nel cervello, chi poteva assicurarmi che non si sarebbero sbiadite con il tempo? Che avrebbero cambiato forma, trasformati in dolore e nostalgia?

La finzione dell'amore, le ali spezzate dalla tempesta e l'azzurro che aveva tinto le pareti del mio mondo, non c'erano più. Corrosi gli argini del dolore, scomparsa la soglia che separava la finzione dalla realtà.

Un saluto alla città che non dormiva mai, un saluto ai grattacieli immensi, alle vie piene di luci, ai rumori di sottofondo, al silenzio inesistente. Un arrivederci a mai più a tutto quello che mi aveva salvato dal perdere la ragione anni prima e che adesso era troppo stretto da tenere addosso. Un addio, ancora e per sempre, ad ogni persona che mi aveva sorriso, che mi aveva parlato.

New York e il suo odore di libertà.


Respirare l'aria fredda di Londra fu come ricevere uno schiaffo in pieno viso perché era stata la città del divertimento, dell'amore e delle fughe da scuola. Era la città che avevo amato per così tanto tempo da non ricordarmi nemmeno i suoi difetti. Sempre legato a Nick, sempre quello che ero un tempo, anni prima di diventare quello che ero in quel momento, o almeno ciò che ne era rimasto. Adesso invece, mi appariva anonima, vuota, un cortile senza bambini a giocarci, un fiume senza pesci da pescare.

Passo dopo passo, nessun bentornato per me, nessuno ad aspettarmi fuori dall'area del nastro per i bagagli, nessuno a reclamare la mia venuta, l'appartenenza. In fin dei conti lo sapevo che sarebbe andata così, sapevo benissimo che non avrei ricevuto niente di tutto ciò, che non mi meritavo il perdono di una sorella o l'abbraccio di una madre.

Mentre trascinavo il mio trolley, odiando il suo raschiare contro il suolo, dopo essere sceso dal taxy che mi avrebbe portato alla stazione ferroviaria, alzai lo sguardo al cielo e pensai che New York doveva essersi svegliata da poco mentre lì, in Europa, il sole era già alto. Mi sfregai le mani per scaldarle un po', il calore umano che avevo assimilato nei mesi precedenti non era bastato.

Feci il biglietto, osservando i volti lividi e grigi di chi, stanco e sfinito, si trascinava come per inerzia. Visi comuni in una massa informe di persone in fila come automi, di vite di passaggio, di sorrisi, di pianti, di urla.

No Sound but the WindDove le storie prendono vita. Scoprilo ora