capitolo 8

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A Giulia.

Uno sparo.
Sordo. Inconfondibile.
Echeggia per l'aria fredda e mi fa sobbalzare. Non sono solo. Il respiro si congela nell'aria fredda.
Decisamente quello di un'arma da fuoco. Non so di che tipo però. Potrebbe essere un fucile. Magari una pistola.
Una pistola.
L'uomo che entrò nel bungalow e appiccò l'incendio quella sera.
Aveva una pistola.
Il mio cuore perde un battito e incomincio a sudare. Non posso scappare. Sono intrappolato. Con una parete di boscaglia impenetrabile davanti agli occhi. E neanche posso tornare indietro perché lo sparo sembrava provenire da quella direzione.
Bel dilemma. Non c'è scampo.
Mi devo muovere. Incomincio ad impazzire.
Devo trovare una via di fuga.
E ce ne è solo una plausibile.
Con un movimento rapido e deciso estraggo l'ascia dallo zaino e incomincio a distruggere la vegetazione di fronte ai miei occhi. Le foglie e i rametti schizzano ovunque, colpendomi gli occhi. Tiro ancora più forte. E ancora di più. Ci sto riuscendo. Il sudore mi irriga la faccia. Si crea una specie di rozzo passaggio tra il fogliame. Devo velocizzarmi perché chiunque abbia sparato quel colpo di sicuro deve essere vicino. E di sicuro sa che sono qui.
Come se l'ultimo pensiero mi avesse dato la giusta dose di adrenalina, incomincio a fare sul serio. Tanti piccoli, ma potenti, colpi tattici. Le piante si sradicando una ad una.
Ce la sto facendo.
Ad un certo punto, il bosco cambia del tutto.
Non è più fitto. Anzi, è formato soltanto da alberi radi ma giganteschi. Sono salvo. Finalmente.
Ho sorpassato la parte difficile. E ora posso farlo.
Posso correre.
Incomincio a correre. La polvere e gli aghi di pino che si alzano da terra. Il cuore mi batte in petto. L'aria fredda mi inonda le narici. Corro. Incessante. Inarrestabile. Con lo zaino in spalla e l'arco saldo nella mano. Sfreccio tra i tronchi e sento un'energia primordiale invadermi le vene. Come una fiamma.
Avevo bisogno di correre.
Mi fermo un attimo per riprendere fiato. Sembro abbastanza lontano dal punto dello sparo. Sembro. Credo che chiunque fosse stato avrebbe trovato difficoltà a ritrovarmi.
Probabilmente sarà rimasto indietro. L'ho seminato.
Il solo pensiero che quel colpo potrebbe essere stato quello della pistola di quell'uomo mi fa rabbrividire. Potrebbe essere ancora vivo.
Probabilmente è ancora vivo.
Di sicuro è ancora vivo.
Non voglio saperlo.
Mi siedo ai piedi di un abete enorme. Le radici intricate solcano la terra come enormi serpenti. Mi tolgo lo zaino. Apro la tasca dello zaino e tiro fuori un cellulare.
Batteria 15 %.
Ottimo.
Non mi sarebbe comunque servito a nulla. Lo rimetto dentro e chiudo.
Poggio l'arco a terra.
La luce che lo illumina mette in risalto il colore nero del legno. Estraggo una freccia dalla faretra. La esamino per bene.
Sono ancora in ottime condizioni. Pulite. Asciutte. Le piume sono compatte e uniformi. La punta fredda e dura.
È allora che mi viene l'idea.
Ebbene si.
Bisogna fare un po di pratica con queste ragazze.
Sono parecchio appuntite e credo che potrebbero facilmente uccidere un coniglio. O un cervo.
Non ho mai provato prima d'ora. È la prima volta che tirò con l'arco ma credo di sapere come si faccia. Sembra abbastanza facile. Impugno l'arco. Incocco la freccia. Sento le piume tra le mani e il vento tra i capelli.
Tendo.
Il momento decisivo.
Scocco.
Con uno scatto fulmineo la freccia si separa dalla corda e si conficca nella corteccia di un albero tre metri piu avanti.
Ce l'ho fatta.
Ebbene bisognerebbe metterlo in pratica su qualcosa di vivo. Sono stanco della zuppa.
Ma non ora.
Stasera.

[...]

La corteccia scrocchia sotto i miei scarponcini. Non è ancora del tutto buio ma lo diventerà presto. Si vede ancora piuttosto bene. Tutto è come coperto da una sorta di alone grigio chiaro che rende tutto più freddo.
L'erba si muove un pochino. Ondeggiata dal vento. Mi fermo.
Mi sono allontanato parecchio dall'accampamento. Parecchio. Avrò fatto circa cinque chilometri a piedi.
L'arco in mano. Una freccia è sulla corda. Sarò pronto a scoccare appena vedrò qualche preda. I miei sensi non sono mai stati così attivi.
Poi lo sento.
Un fruscio tra le foglie. Un qualcosa di grosso. I miei riflessi scattano e tendo la corda. Sono pronto. Il suono proveniva da un cespuglio. Non so cosa sia stato ma c'era qualcosa. Lo so che c'era. Sono sicuro.
Lo risento.
Prendo la mira. Scocco.
La freccia impatta contro qualcosa. Come se avesse colpito qualcosa di molliccio.
Ne ero certo.
C'era qualcosa.
Il cespuglio si muove un ulteriore volta. In un secondo, la cosa che ho colpito scatta fulminea fuori dal cespuglio e scappa.
Non riesco a vedere di cosa si tratta. Ma ho visto che aveva ancora la freccia conficcata nella carne.
Scatto anche io. Pronto. Corro e vado in quella direzione. Schivo i vari rami. Sono pronto a scoccare un'altra freccia se necessario.
Ma dov'è?
Non sento più nulla.
Sono stato troppo lento. Non c'è più. Scappata via. Ce l'avevo fatta.
Me la sono fatta scappare.
Aspetta.
Sento un odore pungente. Sangue.
È ovunque.
Ovvio. La preda ha perso sangue.
Bingo.
Seguo la scia. È a terra, sulle foglie, sui rami. Ovunque. Un liquido rosso scuro. Molto denso. Caldo. Lo seguo attentamente.
Doveva essere una preda bella grossa perché ha lasciato dei bei passaggi nel fogliame. Mi addentro nel sottobosco. L'odore è sempre più forte. Sempre più pungente. Poi vedo qualcosa che basta a farmi tornare su ciò che ho mangiato sta mattina.
A terra. Vicino ad una quercia. C'è la mia preda.
Un giubbotto di pelle. Un paio di jeans. Una freccia nella spalla.
"Credevi davvero che ci fossimo visti per l'ultima volta?"
Lei.
Malia.

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