Faccio un passo avanti.
Piano.
Come si fa davanti ad un animale selvatico per non farlo spaventare
Le finestre dell'enorme palazzo davanti a me riflettono il chiarore del cielo. La facciata color bianco sporco lo fa assomigliare molto ad un ospedale. È molto alto e sembra essere uno dei pochi edifici rimasti completamente in ottime condizioni.
Sono arrivato. Ce l'ho quasi fatta.
Devo attraversare il piazzale di cemento davanti all'edificio, correndo.
Devo correre per forza. Sicuramente c'è gente li dentro, e se mi vede sono morto. Letteralmente.
Mi tremano le gambe. Tutti i miei nervi sono tesi. Devo stare attento. Sono sicuro che delle guardie ora sono appostate da qualche parte. E appena mi muoverò succederà il finimondo.
Devo tenermi stretto il fucile.
Corro.
Le gambe si muovono velocissime. Non si sente nulla, oltre al rumore dei miei passi sul terreno.
Corri ragazzo, corri.
Sorpasso la porta di vetro e svolto all'angolo dell'edificio. Appoggio le spalle contro il muro e riprendo fiato.
Mi ero sbagliato. Sembra che non ci fosse nessuno. Del resto non si può mai sapere.
Questo è il mio piano.
Devo riuscire ad entrare in questo dannato palazzo e capire dov'è la loro sala conferenze. A volte papà ne parlava. È praticamente il posto dove fanno le loro "chiacchierate", le loro conferenze e parlano dei loro affari. Non so che ore sono, ma sicuramente adesso sono riuniti lì dentro. Papà era solito attenersi a questi turni quando eravamo a Denver.
Quindi entro, trovo la sala conferenze, faccio irruzione, uccido tutti e me ne vado subito.
Più facile a dirsi, che a farsi.
Mi stacco dal muro e mi dirigo verso il retro del palazzo. Sento che qualcuno mi osserva.
Spero sia solo una mia sensazione.
Con una mano tocco il muro e con l'altra reggo il fucile. Arrivo alla fine della parete e, cautamente, getto uno sguardo oltre l'angolo.
Nemmeno un'anima.
Svolto a destra e mi fermo. Davanti a me c'è un piazzale di cemento, pieno di secchi della spazzatura e cartacce gettate a terra. Una piuma di non so quale uccello è a cinque centimetri dalla mia scarpa. Nera e bianca.
C'è uno strano silenzio.
Non mi piace affatto.
Una rampa di scale d'emergenza si arrampica per tutta la parete dell'edificio.
Alcune porte, li sopra, sono aperte. È l'occasione che aspettavo.
In un momento, con il battito del cuore che mi rimbomba nelle orecchie, mi avvicino alla scala e metto il piede sul primo gradino. Quel momento sembra durare un'eternità.
Scatto. Veloce. Con il fucile spianato. Il viso in fiamme. Potrebbe spuntare qualcuno da un momento all'altro. E le probabilità che non abbia buone intenzioni sono alte.
Tubi metallici, grigi e lunghi, costeggiano le scale. Un rumore simile al ronzio di un'ape mi si infila nelle orecchie e si trasforma in un fischio.
La vista da sopra le scale è incredibile.
L'immensità del Giaciglio mi si para davanti agli occhi. I palazzi alti che svettano nel cielo. I magazzini affiancati l'uno all'altro. Una visione grigia e fredda. I miei occhi guizzano per un secondo sulle strade. Le ho attraversate. E da qui sopra, mi accorgo davvero di quante sono.
Di tutta la strada che ho fatto.
E di per se, essere arrivato qui, è già un traguardo.
Salgo su per la scala. Manca un ultimo gradino e poi sono di fronte alla porta. A trenta metri da terra, circa. Ogni passo equivale ad uno strano rumore, proveniente dalla rampa metallica sotto i miei piedi.
Fino a quando, con il cuore in gola, non varco la soglia della porta e mi ritrovo all'interno dell'edificio.[...]
Inchiostro.
La prima parola che attraversa l'anticamera del mio cervello.
L'odore è quello.
Mischiato a quello della carta e di qualche strano tipo di bevanda da ufficio. Mi invade le narici come una folata improvvisa di vento gelido.
Sono in un lungo corridoio. Le luci tremolanti al neon sul soffitto ogni tanto sfarfallano. Danno un aria più agghiacciante di quanto dovrebbe essere in realtà. Il pavimento è bianco.
Come tutto del resto.
Il corridoio è abbastanza largo e, ai suoi lati, ci sono delle porte.
Il silenzio regna.
Incomincio a camminare lentamente. Cauto.
Metto il fucile in spalla e tiro fuori la pistola. La tengo stretta nella mano.
Sto attento a non fare rumori inutili. Sembra esserci molto eco. E non voglio che qualcuno esca a controllare.
Cammino di soppiatto. Qui dentro fa abbastanza caldo, a differenza di fuori.
Il corridoio sembra non avere fine.
I ricordi sembrano prendere vita dalle pareti monotone.
Quando da piccolo andavo con mamma in ospedale, perché lei doveva fare delle visite speciali.
Quando papà mi portava a fare un giro in macchina, e gli parlava del suo lavoro.
Persino quando al mare, un'estate, rimasi sveglio fino a tardi con i miei amici per vedere l'alba.
Poi mi viene in mente Ashley.
E il viaggio.
E papà.
E Malia.
Un movimento cattura la mia attenzione e mi fa tornare con i piedi per terra.
Una ragazza. Con lunghi capelli biondi legati all'indietro in una coda e grandi occhiali rotondi poggiati sul naso. In mano ha un'agenda.
Il suo sguardo è terrorizzato. I grandi occhi, resi ancora più grandi dagli occhiali, fissi su di me. La bocca.
Probabilmente sa chi sono.
Basta pensare che mi credevano morto.
Il sangue mi si gela nelle vene. Ci fissiamo per un attimo, che dura eternamente.
Poi corro verso di lei.
Fa cadere l'agenda a terra e incomincia a correre nell'altra direzione, urlando.
Mi getto su di lei e cadiamo a terra. Cerca di scappare ma le agguanta la caviglia e la tiro verso di me. Poi con una mano le tappo la bocca e con l'altra le punto la pistola alla tempia. Mi guarda impaurita e incomincia a piangere. Mi porto un dito sulle labbra.
"Shh."
Cerca di liberarsi ma spingo la pistola sulla sua testa.
"Allora, sentimi bene." La mia voce è un sussurro impercettibile. Il mio sguardo una scheggia di ghiaccio.
"Tu non urlerai. Non scapperai. Non chiamerai nessuno. Farai soltanto una cosa." Mi guardo intorno, come se qualcuno potesse sentirmi.
"Tu mi porterai nella sala conferenze."
Poi le tolgo la mano dalla bocca e mi alzo da terra.
La pistola premuta contro la sua tempia.
Si alza anche lei e, con un passo sveltissimo, mi conduce ad un'ascensore poco più avanti.
Con un rumore elettrico, le porte dell'ascensore si aprono. Uno specchio nell'ascensore mostra la figura impaurita della donna. Elegante. Pulita. Ordinata.
Accanto a me.
Sporco. Devastato. Del tutto fuori luogo in quel posto.
Entriamo nell'ascensore e le porte si chiudono all'istante.
Spinge un bottone con su scritto 02 e l'ascensore incomincia a scendere.
Scende.
Sento il suo respiro affannato nel silenzio dell'ascensore. Dentro di me, il battito del cuore mi sta straziando il torace.
L'ascensore si apre su un corridoio vuoto. Alcune voci ovattate provengono da una porta di fronte a me.
La ragazza corre e io le tengo il passo.
Arriva alla porta.
Afferra la maniglia.
La apre.
Appena entriamo, le voci scompaiono. Sostituite da versi di stupore o, nella maggior parte dei casi, dal silenzio più completo.
Degli uomini in giacca e cravatta siedono ad un lungo tavolo di legno, illuminato da grandi lampade al neon sul soffitto.
Alcuni sembrano impauriti. Altri hanno portato una mano alla bocca. Altri si sono alzati dalla sedia.
Le facce sorprese di tutti sono puntate su di me.
Giù, in fondo al tavolo, un uomo alto e dai capelli grigi mi guarda."Matthew"
Un sorriso compare sul viso dell'uomo.
"Benvenuto"

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deep shadow - a.g.
Macera"Matthew Jason Cantrell. 15 anni. Denver, Colorado. Vita perfetta. Soldi. Feste. Una ragazza. Un viaggio. Un tragico incidente. Una fuga. Una nuova conoscenza. Lotta per la sopravvivenza. Perché niente e nessuno è come sembra se si tratta di affr...