La morte è un po' la risposta alla vita, credo. Una sorta di spirale senza fine, una domanda la cui risposta è essa stessa la morte. È un concetto astratto, sai, alla fine non c'è nemmeno il bisogno di chiedersi perché si muore. Se nasciamo, perché non dovremmo morire?
Mi piace pensare che una volta morti, si è finalmente in pace. Mi piace pensare di stare lontano da ogni minimo problema in un mondo privo di imperfezioni, godendo di quella quiete che non ho mai avuto nella mia vita, quella catarsi che ho sempre ricercato in qualcosa di materiale che non ho mai trovato, in realtà.
È strano, comunque. Pensare che ci mettiamo così tanto per nascere, e un secondo per morire, ecco. Chiudi gli occhi e abbandoni tutto, e credo sia al contempo meraviglioso lasciarsi andare. Soprattutto dopo aver sofferto così tanto, ritrovando così la tranquillità che hai perso, la felicità che hai smesso di avere. Perché alla fine è così, il dolore fisico ti porta via la felicità tanto quanto te la porta via il dolore psicologico. È inutile uscirsene con quelle frasi "Ma sto bene!" quando lo sai che stai per morire. Dot lo diceva sempre. Fino all'ultimo ha insistito con il suo "Ma papà, sto bene". Fino all'ultimo. Io glielo dicevo che poteva anche non mentirmi, mi sentivo meglio. Non mi è mai piaciuto quando la gente mi diceva le bugie. A Dot avevo sempre insegnato che le bugie non si devono dire, assolutamente. Se c'è una cosa che mi mandava in bestia erano le bugie.
Ma Dot mi aveva insegnato che a volte le bugie sono necessarie.
Il mio ego era scomparso. Davvero. Mi ero messo sotto tutto, all'ultimo posto, come quando competi per una corsa in cui sai di non potercela fare ad arrivare primo. Ce la metti tutta per sistemare le cose, ma arrivi comunque ultimo.
E sono arrivato sotto lo zero quel giorno di agosto, una sera fresca, quindici giorni prima il mio compleanno, del 1994. Fino ad allora era stato un anno pessimo. Forse è anche dire poco. Ad ogni felicità era seguita un forte evento amaro.
Dot aveva deciso di voler tornare a casa, da mamma e papà, e aveva deciso di chiudere lì gli occhi, nel letto di casa nostra, accanto a me e la sua famiglia. Avevo voluto fare un ultimo giro in città, al mare. Quanto le piaceva il mare. Diceva sempre che l'odore della sabbia le dava un senso di libertà, un senso di infinito. Diceva sempre che si sentiva infinito. Diceva che quando si è liberi si è infinito. Non avevo mai davvero capito cosa mi volesse dire con quello fino a quella sera, una delle tante passate a darle speranze che io stesso consideravo futili.
"Ti sentirai meglio, te lo giuro" le dicevo di tanto in tanto, quando gemeva dal dolore. Urlava spesso a causa delle "fitte, come se un ago con un diametro di venti centimetri mi trafiggesse la schiena, e il dolore si espande dalla testa ai piedi".
Dot era sempre stata più forte di quel dolore che, come diceva lei, le squartava il petto, lo stomaco, le gambe, ogni singola sua parte. Dall'osso più piccolo all'osso più grande, niente escluso.
Sentire ogni suo urlo mi torceva il cuore il petto, mi sentivo un egoista. Avrei dato tutto pur di non sentirla gridare; guardarla morire.
Gladys stava tutto il giorno seduta su una sedia accanto a lei, a fissare il vuoto, gli occhi spenti, come se fosse stata pazza. Rossi come il sangue per tutte quelle lacrime che ormai aveva finito, magra, piccola piccola. Perché quando ti muore un figlio muori tu. È un dolore che ti consuma da dentro, lentamente, e a lui piace farti soffrire. Ci penso spesso ad ammazzarmi per ricongiungermi a ciò che in vita è stata la cosa più bella che ti abbia mai avuto. Io l'ho fatto.
Gladys si stava facendo sopraffare dal dolore. La capivo. La capivo anche troppo bene. Non mangiava, non faceva niente, se non rimanere accanto a Dot. Non si prendeva cura di sé, non si guardava allo specchio da tanto.
Stesso io mi trascuravo. Mi dimenticavo del lavoro, di tutto. Tutto. Nulla per me aveva un briciolo di significato.
Mi piaceva intrattenere Dot con qualche racconto. E mi stava piacendo raccontarle di quando è nata.
"Secondo te fa male morire?" mi chiese a metà racconto, interrompendomi, nonostante sapesse che non mi piaceva essere interrotto. A lei era concesso.
"È più facile che prendere sonno. Secondo te?"
"Non lo so" mi rispose, tossendo forte. Le pulii il sangue colante dalla bocca.
"Avevi ragione quando dicevi che la speranza è un effetto collaterale del morire"
"Lo so. Ho sognato il mare prima"
"Bello?"
"Moltissimo. Era calmissimo, e ho sentito i gabbiani accanto a me. Secondo te è così il paradiso?"
"Lo spero tanto" dissi sorridendo, rivolsi lo sguardo a lei. "Sei bellissima, principessa"
"Ti somiglio, no?" sorrisi guardando il soffitto.
"Ti amo tantissimo, Dot" cominciai, fra il tremore della voce e inutilmente trattenendo le lacrime. "Tutti ti amiamo. E io ti ringrazio milioni di volte per quello che mi hai insegnato. Non sono mai stato solo con te, e io ti ringrazio. Sei arrivata in un periodo nero per me, nero davvero, e tu…hai portato via le nuvole dal mio cielo e da allora ho visto solo luce. Io ti ringrazio perché mi hai fatto capire cosa significa combattere per qualcuno e mi hai fatto provare la meravigliosa sensazione di esserti padre. Ti ringrazio per la meravigliosa avventura che mi hai fatto vivere" le parole si spezzavano fra i singhiozzi, il pianto incontrollato.
"Ti amo anche io, papà. Grazie a te"
"Puoi lasciarti andare"
La abbracciai in vita, fece un ultimo, profondo respiro. Se lo godette, e io rimasi ad ascoltare, sentire il petto gonfiarsi poi sgonfiarsi, la stretta nella mia mano diventare sempre più debole, fino a diventare inesistente.
E fu lì che mi ricordai di ogni meraviglioso momento che passai con lei.
Mi ricordo la prima volta che la vidi camminare, mi faceva ridere da morire, perché sembrava un piccola paperella appena uscita dall'uovo. E venne verso di me, a braccia tese come a raggiungermi prima, e la incitavo a fare di più, che ce l'avrebbe fatta a raggiungermi senza cadere prima. E se fosse caduta si sarebbe rialzata e ci avrebbe riprovato.
Mi ricordo la prima volta che mi ha chiamato, quando l'avevo lasciata nella culla pregandola di non piangere troppo mentre ero via. E quando mi voltai, prendendo la giacca, avvisando mia madre di farla piangere se avesse iniziato, lei mi chiamò. E mi ha chiamato tante volte da allora. E ogni volta mi sono sentito così onorato di avere qualcuno che mi chiamasse papà, mi guardasse negli occhi e mi dichiaresse il suo amore per me, come mai nessuno aveva fino ad allora fatto.
Mi ricordo la prima volta che le ho fatto il bagno, le ho cambiato un pannolino, ogni volta in cui mi sono alzato nel cuore della notte a causa del suo pianto. Quante volte mi ha vomitato addosso, ma io non le ho mai detto niente, non l'ho mai sgridata.
Mi ricordo quando tutte le notti potevo abbracciarla, lentamente, proteggerla. E quando pioveva stringerla a me, sussurrarle che non aveva bisogno di aver paura dei lampi, dei tuoni. Non era quello a fare paura davvero.
Mi ricordo un sacco di cose. Troppe cose. E i ricordi fanno male, un sacco. Dio ci ha dato i ricordi in modo che potessimo avere le rose di giugno nel mese di dicembre. James Barrie è stato capace di scrivere ciò che io sentivo in quei momenti, nel proseguire dei giorni.Il funerale fu forse il momento peggiore dopo la sua morte. Non mi mossi dalla sedia per tutta la durata della celebrazione.
Mi faceva imbestialire vedere tutti quei parenti che, vestiti di nero. Comparivano solo in quel momento, quando durante tutta la malattia di Dot non si erano nemmeno degnati di farle una telefonata. Non era per me, a me non interessava nemmeno. Non mi interessava più nulla in realtà.
Non sapevo facesse così male perdere qualcuno di così importante. Non avevo mai perso nessuno, oltre Gladys. Ma non mi aveva procurato così tanto dolore. Forse perché avevo altro a cui pensare. Ma in quel momento era un pensiero costante. La morte, intendo. Dot non ha mai avuto paura di morire. Lei è stata una testimone di una battaglia intensa, la perdente in una staffetta, ma la mia vincitrice.
E a me manca.
Non ho mai pensato di provare un dolore così forte al petto. Non credevo potesse esistere, era la prima volta che lo sentivo. Mi uccideva ogni singola cellula di me, ogni singolo osso.
Se fossi tornato indietro avrei evitato tutto questo.
E invece no.
E a me manca.
Mi manca ogni cosa di lei, ogni singolo sorriso, ogni singolo movimento. Mi manca sentirla respirare al mattino mentre continuava a dormire. Non c'è niente di più bello per un genitore che sentir il respiro dei propri bambini mentre dormono.
Avevo il compito di proteggere la mia bambina.
Ma non l'ho fatto.
E a me manca.The end.
Ringrazio ogni singola persona che, nel corso di questa lungo e travagliato viaggio, insieme a me ha sognato di vedere un Michael diverso. Ebbene, giunti alla fine, non posso fare altro se non inchinarmi a voi e ringraziarvi. Se vi va, sto scrivendo una nuova storia (Forever, us), passate.
Grazie mille ancora.
(Scusate se pubblico solo ora il capitolo, dopo un sacco di tempo. Ora come ora ho molto sonno, l'ho appena completato, scusate se scorre poco, se è poco chiaro, poco sistemato)
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we are us.
Fanfiction"io ti proteggerò, che ci siano tempeste o no. noi saremo torre nella bufera"