-2.Riabbracciarsi-

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Dopo cinque ore di macchina e aver ascoltato lo stesso cd che ripeteva in un loop infinito l'unico concerto che vi era contenuto, i cartelli stradali mi avvisarono che mancavano pochi chilometri alla mia destinazione: Dover, una città marittima con poco più di centomila abitanti.

Lungo i margini della città si sviluppavano i complessi residenziali che andavano dalle ville della periferia ai palazzi di dieci piani intervallati da ogni tipo di servizio, da quelli di prima necessità fino a ristoranti e tavole calde, non mancavano certo alberghi e locali. Ma era il centro il punto più caratteristico e pittoresco, era qui che si svolgeva la vera vita della città, negozi, teatri, ristoranti e hotel di lusso facevano lampeggiare in modo accattivante e vivace le loro insegne rendendole visibili anche da lontano e invitando i turisti e gli abitanti a far parte di quella vitalità. Non troppo lontano dal centro si sviluppava lungo il litorale una fascia continua di vilette, chioschi e una lunga passeggiata all'aperto, la spiaggia aveva la sabbia bianchissima e si estendeva per chilometri.

Arrivai nel primo pomeriggio e dopo aver girato un po' per la città riuscì a raggiungere la mia meta: un condominio a cinque piani in buone condizioni, anche se i colori della facciata erano un po' sbiaditi rispetto a quelli della foto. Parcheggiai e scesi senza però tirare fuori le mie cose dalla macchina, dopotutto non avevo la certezza che abitasse ancora lì. Mi avvicinai e scorsi il citofono e sorrisi quando trovai il suo nome, suonai, ma nessuno rispose.

Riprovai una seconda e una terza, ma l'esito non cambiò. Non conoscevo i suoi orari, poteva essere a lezioni, a lavoro, o magari semplicemente da qualche altra parte, dopotutto non poteva sapere del mio arrivo.

Stavo per risalire in macchina, avrei aspettato un altro po' dentro per non attirare l'attenzione, o avrei riprovato ad un orario diverso, ma non ce ne fu bisogno: feci appena in tempo a scendere gli scalini che riconobbi la sua voce provenire dalla strada.

Lei non si era accorta di me ed io rimasi ad osservarla mentre si avvicinava. Stava chiacchierando al telefono, rideva e rispondeva con un sorriso alle parole del suo interlocutore e la sua espressione mutava in continuazione.

Era così cambiata dal nostro ultimo incontro, era cresciuta eppure riuscivo ancora a vedere la stessa bambina che mi aveva salvata in più modi di quanti potesse immaginare. Non riuscì a scacciare le lacrime che mi salirono agli occhi.

Mi era mancato tutto di lei: il modo in cui il sorriso le illuminava il volto, gli indomabili capelli rossi che avevo provato a sistemare tante di quelle volte che alla fine ci avevo rinunciato, gli occhi verdi vivaci e curiosi.

Quando sollevò lo sguardo sul mio non riuscì a non farmi sfuggire un sorriso e un mezzo singulto, mentre lei si fermò di colpo quasi incapace di credere a ciò che vedevano i suoi occhi.

Il telefono le scivolò di mano, così come la borsa, ma non si curò di nessuno dei due. A mala pena riusciva a spiccicare parola e cautamente si avvicinò a me, lo sguardo incerto, quasi come se potessi sparire da un momento all'altro davanti ai suoi occhi.

«Sei davvero tu?» la voce le tremava e gli occhi le si riempirono di lacrime.

Le sorrisi e annuì appena. Mi aspettavo che si sarebbe arrabbiata, che avrebbe riversato su di me tutto il dolore che ingiustamente le avevo fatto passare, sapevo di meritarlo, per ciò rimasi sorpresa quando mi corse incontro e mi abbracciò senza aggiungere nessuna parola.

La sua stretta era forte, come per assicurarsi che fossi davvero lì. La strinsi e le accarezzai dolcemente i capelli.

«Sono qui Aggy... Sono davvero qui».

Quando ne fu certa il suo corpo fu scosso da tremiti e cominciò a piangere, gioia e dolore si mischiavano nelle sue lacrime, come nelle mie. Mi sembrò di tornare indietro a quando tenevo quella fragile e dolce bambina tra le mie braccia, solo che ora non ero sicura di sapere chi delle due stava curando chi.

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