XXII

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Il primo edificio che incontro ha l'aspetto di uno di quei vecchi bar in cui potresti ordinare tranquillamente da bere alle sei di mattina e nessuno ti verrebbe a dire niente.
Dopo aver camminato tutta la notte, non sento più le gambe e gli occhi mi si chiudono dalla stanchezza.
Ho passato il tempo a contare le monete che ho trovato nella tasca destra dei pantaloni.
Dovrebbero bastare.
Il sole che sta sorgendo mi fa compagnia mentre, esitante, passo davanti alla vetrata per poi fermarmi davanti alla porta verde.
I tavoli sono tutti liberi, tranne quello sul quale un uomo dalla barba incolta fissa immobile una pagina di giornale ingiallita.
Una donna è dietro al bancone e con uno straccio sta pulendo il piano.
«Salve.» la voce è flebile e devo schiarirmi la gola per far si che la donna noti la mia presenza.
Posa lo sguardo sul mio volto per qualche secondo, poi continua a pulire.
«Un caffè, per favore.»
Annuisce e dopo qualche istante poggia la tazzina di fronte.
La bevanda amara mi brucia la lingua ma serve a risvegliarmi almeno un po'.
Affisso al muro c'è quello che stavo cercando.
Il telefono bianco è un vecchio modello ma dovrebbe funzionare.
«Scusi... Potrei fare una telefonata?»
La donna sembra soppesare la mia richiesta prima di fare un cenno della mano invitandomi a comporre il numero.
Dall'altro capo della linea risuona uno squillo dopo l'altro e proprio quando sto per perdere la speranza, qualcuno risponde.
Non è però la voce che mi aspettavo.
«Pronto? ti prego Rei, dimmi che sei tu.» Ha il fiatone.
«Sel? Che ci fai a casa mia?»
«Oh Dio, grazie. Rei, ero così preoccupata. Sono ventiquattro ore che sei sparita. Dove sei? Stai bene? Giuro che vengo lì e ti porto a casa con la forza se devo»
«Ehi, calma. Sto bene.»
Mentre fisso i leggeri lividi violacei che ho sulle braccia, gioco con il filo del telefono.
«Dov'è la nonna?»
Dall'altra parte scende il silenzio.
«Sel? Dov'è?»
La sento prendere un respiro profondo.
«Eirene, non so come dirtelo...»
                           ***
Non so cosa mi aspettassi.
Sono riuscita a scappare, a sopravvivere, forse.
Ma la sorte non dona mai niente senza poi chiedere qualcosa in cambio.
Solo non riesco ad accettare che questo 'qualcosa' debba essere proprio la nonna.
Relegata in un letto d'ospedale, gli occhi grigi sembrano così spenti.
I capelli sono sparsi sul cuscino bianco, colore che sembra confondersi con quello della fodera. Non riesce a guardarmi negli occhi e nonostante talvolta la bocca sembri contrarsi come a formare l'inizio di una parola, non riesce neanche a parlare.
Più rimango qui seduta, più mi accorgo di come stia scivolando via.
Nascondo le mani sotto le coperte del letto e appoggio la destra sopra la sinistra per evitare di vederle tremare.
È difficile essere forti e affrontare la realtà quando hai sempre fatto solo finta di farlo.
Non me ne ero accorta prima ma non tutti mi avevano abbandonato dopo quel fatidico giorno.
E la nonna è una di queste persone.
Ha sofferto anche lei d'altronde.
Ha perso suo figlio.
La sua unica famiglia, dopo che il marito se ne era andato.
Sangue del suo sangue.
Soffriva e io non me ne sono mai accorta perché ero troppo accecata dal mio di dolore.
È una donna forte. Lo so perché è riuscita ad andare avanti senza l'aiuto di nessuno, a mettere da parte i suoi bisogni per far fronte ai miei.
In questo momento vorrei avere almeno la metà del coraggio che ha avuto lei in tutti questi anni.
«Adesso ho capito, nonna.»
Le mie parole risuonano senza risposta nella stanza che odora di lacrime e disinfettante mentre sfioro il viso della donna davanti a me. Di cui, però, è rimasta soltanto un 'ombra.

N/A:
Il capitolo è cortissimo e sono in supermega ritardo. Chiedo venia!😬 grazie a tutti coloro che continuano a leggere (e a votare!) questa storia💕

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