5 giugno 2016

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Primi occhi riaccesi.

Suonò la campanella dell'ultima ora. Normalmente sarei stata molto felice di uscire da quella gabbia di matti. Purtroppo per me non era finita. Dovevo andare dalla bidella e farmi dare la scopa e la paletta per pulire ogni singola classe. Sarebbe stato un incubo. Ma questo non era tutto: dovevo farlo con te, Calum, la persona che odiavo di più in quel momento. L'amicizia tra me e te era fatta di alti e bassi, più bassi che alti. Per la maggior parte del tempo litigavamo e non ci parlavamo per settimane. Il giorno prima c'era stato l'ennesimo litigio per l'ennesima cavolata. Ero frustrata, stanca, triste, arrabbiata, e tutte le peggiori emozioni che si possano provare. Mi ricordo che Ashton mi seguiva da giorni, mi stava appiccicato; continuava a scusarsi e a chiedere di rimetterci insieme. Io ero fredda, gli parlavo solo per dirgli di piantarla. Non lo volevo. Era finita. Una sera ero appena uscita dal bagno con l'accappatoio. Mi stavo per cambiare e mettermi il pigiama, quando, ad un certo punto, vidi una sagoma tra gli alberi del mio giardino. Era buio ed ero convinta che fosse solamente la mia immaginazione. Per sicurezza chiusi la finestra e controllai meglio. Vedevo la luce dei lampioni che si rifletteva in un paio di occhi nascosti tra i cespugli. Erano fissi su di me. Avevo il cuore a mille. Poteva anche essere semplicemente un gatto, era talmente buio che non si distingueva granché. Eppure ero inspiegabilmente sopraffatta dalla paura. C'era qualcosa che non andava. Scesi velocemente le scale e corsi verso la porta d'ingresso. Con la mano che tremava aprii lentamente la porta. Trattenni il fiato, mentre i battiti del cuore mi rimbombavano nelle orecchie. Accesi la luce del portico e, ancora con l'accappatoio di spugna e i capelli che mi gocciolavano sulla schiena, uscii. "Gabriella." Sobbalzai a sentire il mio nome, soprattutto pronunciato da quella voce. "Sono Ashton." Il ragazzo uscì dalla penombra. Aveva un aspetto trasandato. Indossava semplicemente una maglia e dei jeans, nessuna giacca sebbene la sera si morisse dal freddo. Sotto gli occhi c'erano due occhiaie profonde come se non riuscisse a dormire. Sul mento c'era qualche accenno di barba. La cosa che mi colpì di più erano gli occhi: sgranati come quelli di un pazzo. Ero spaventata e non sapevo cosa ci facesse lì. Feci un passo indietro e lui si avvicinò a me. "Cosa ci fai qui?" gli chiesi con voce tremante. "Ti stavo guardando. Non riesco a farne a meno. Sei proprio bella." Rise nervosamente quasi fosse un tic. Non l'avevo mai visto in quello stato. Mi sentivo colpevole, perché era successo tutto quanto dopo la nostra rottura. Pensavo che non gli importasse niente della nostra relazione. Era da giorni ormai che non riuscivamo a vederci e lui era molto cambiato. Mi chiedeva in continuazione se lo amavo, mi assillava con messaggi tipo ' Perché non mi ami? ' oppure ' Staremo sempre insieme, vero? ' e mi faceva certe scenate di gelosia quando mi vedeva parlare con te. Io mi ero stancata e allora l'avevo mollato. Per lui era come se non fosse successo niente. Anzi continuava con i suoi atteggiamenti, intensificandoli. Non mi sono mai preoccupata troppo. Ero convinta fosse una cavolata, che gli sarebbe passata dopo qualche giorno. In quel momento era lì di fronte a me nel mio portico e mi resi conto che la situazione mi era sfuggita di mano. Ero spaventata, certo, ma volevo aiutarlo, perché a me importava ancora di lui. Respirai profondamente e dissi: "Lo fai spesso?" "Non lo faccio io. Qualcuno mi porta qui ogni sera. Io vorrei andarmene, ma ti guardo e mi ipnotizzi. Resto fermo a guardarti. E' solo colpa tua se mi trovo ogni dannata notte qui." Si diede un pugno alla testa per zittire la stessa voce nella sua mente. Era perso, impossibile da trovare. In quel momento sperai di vedere la macchina dei miei genitori parcheggiare sul vialetto, ma non arrivarono. Quella frase mi aveva turbata. Mi avvicinai con tutto il coraggio che mi era rimasto e cercai un contatto per rassicurarlo e per fargli capire che io c'ero. Lui mi guardò spaventato da quello che gli stava accadendo e confuso dal mio gesto. Un pensiero gli oscurò il volto e scappò via, corse fuori dal mio giardino lungo la strada illuminata. La mia mano cadde nel vuoto. Non capivo cosa gli fosse preso. Era corso via come se avesse visto un fantasma. Ero stravolta, perché non riuscivo proprio a capire cosa gli fosse successo. Chiaramente ero anche arrabbiata, dopotutto mi aveva spiata per settimane. Ma il cuore mi spingeva ad aiutarlo e la rabbia passava in secondo piano. Infatti, il giorno seguente a scuola lo cercai. Durante le lezioni lo vedevo con la testa appoggiata sul banco che continuava a fissarmi con occhi vitrei. All'intervallo andai all'armadietto di Ashley, dove lei stava tentando di infilarci il mattone di storia. "Non ci entrerà mai" constatai e lei sbuffò. "Novità con Ashton?" "Non riesco a trovarlo. Alla fine delle lezioni cerco di seguirlo, ma è come se scomparisse." Frustrata, mi passai una mano fra i capelli. "Stai attenta, Gabbe. E' diventato strano e dopo quello che è successo ieri sera..." "Lo so, ma sono preoccupata per lui. Ha bisogno d'aiuto." Mi guardò inquieta. "Solo che tu non sei la persona adatta a darglielo." Non ascoltai nemmeno le sue parole, tanto sapevo che mi stava rimproverando. In quel momento vidi Ashton di sfuggita: era diretto verso lo sgabuzzino. Spostai bruscamente Ashley e corsi verso di lui. Aprii lo sgabuzzino: Ashton era lì che piangeva disperato. "Ashton, ehi, sono Gabriella." Lui si alzò lentamente in piedi e all'improvviso si mise ad urlare. Un urlo inquietante come se volesse sputare tutto quello che aveva dentro di sé. Ogni ragazzo nelle vicinanze si era girato ad assistere alla scena, portandosi a distanza di sicurezza. Ashton si alzò di scatto davanti a me e mi si avvicinò talmente tanto che pensavo volesse baciarmi. Io trattenni il respiro e chiusi gli occhi. L'avrei lasciato fare, pur di farlo stare meglio sarei anche ritornata con lui. Tentai di calmare il battito del mio cuore. Avevo paura, tanta di quella paura. Mi sentivo debole e capace di svenire da un momento all'altro. Sentivo il respiro di Ashton sul mio collo. La pelle mi fremeva. Lui posò le sue mani sulle mie spalle per poi spostarle lentamente fino ad arrivare al collo. Me lo circondò. Non capivo cosa avesse intenzione di fare. Ashton iniziò a premere e i ragazzi, intorno a noi, cominciarono a sussurrare e fare versi sorpresi. Ad un certo punto mi bloccò il respiro. Io aprii gli occhi. Ero terrorizzata. Non capivo perché era così tanto infuriato con me al punto di strangolarmi. I suoi occhi erano iniettati di sangue e sprizzavano odio. Stavo soffocando. Tentai di divincolarmi, anche se sentivo i suoi occhi accusarmi e ammonirmi di restare ferma, perché mi meritavo tutto quello che Ashton mi stava facendo. Con le mani cercai di allentare la presa sulla mia gola, però era troppo salda. Gli alunni intorno a noi urlavano, piangevano, chiamavano; i più coraggiosi parlavano sotto voce a Ashton oppure lo picchiavano per mollarmi. Tentativi inutili. Lui sembrava pietrificato. Lo sguardo fisso nel mio. Le gambe divaricate che nemmeno una gru sarebbe riuscita a smuoverlo. Io gli davo pugni sul petto, mentre la mia bocca era aperta in un urlo muto. Sentivo la forza svanire e la vista oscurarsi. Pensai di stare per morire. Dopo successe qualcosa: arrivasti tu e non so come, riuscisti a spostarlo e mi ritrovai distesa sul pavimento del corridoio senza quella presa mortale alla gola. Dovevo essere stata incosciente per alcuni istanti. Tu eri sopra ad Ashton che lo tartassavi di pugni. Io ho solo pensato ' Non un'altra volta '. Mi misi a gridare: "SMETTILA. LASCIALO STARE. COSÌ LO UCCIDI" confidando nel fatto che i ragazzi non erano ubriachi come la volta prima. Rivissi la stessa scena di tempo fa. Tu che tartassi di pugni Ashton e io che gridavo disperata senza che a te fregasse niente. A te non importava cosa volevo io, se vedi qualcuno che mi mette le mani addosso, non importa chi sia, tu devi stampargli un pugno in faccia. Fortunatamente arrivò l'insegnante di Ed. Fisica che si affrettò a portare via Ashton da lì. Tu ti alzasti e venisti da me. "Gabbe, va tutto bene" e mi abbracciasti. Io non reagii, guardavo il sangue di Ashton a chiazze sul pavimento. "No, non va affatto bene. Lo stavi per uccidere. Non era colpa sua e tu volevi ucciderlo. Dovresti uccidere me, perché sono io che l'ho ridotto in quel modo." Me ne andai lontano da quella lugubre scena. Non feci niente per il resto del giorno. Mi sedetti su un banco fino alla fine dell'orario scolastico, ripensando alla scena e a tutto quello che avrei potuto fare per aiutare Ashton. Alla fine me ne tornai a casa. Quello stesso pomeriggio arrivò a mia madre una lettera che diceva:

"Rispettabile Signora Michaelson, sono mortificato di riferirle che sua figlia frequenterà le lezioni pomeridiane punitive durante la prossima settimana. Dopo quello che ha passato le sembrerà assurdo ciò, ma nonostante sua figlia sia una vittima noi siamo tenuti a punire ogni studente che va contro le rigide regole della nostra scuola.

Un saluto dal vicepreside Ronald DiLaurentis."

Nonavevo avuto neanche il tempo di riprendermi che dovetti raccontare ogni singolacosa a mia madre. Puoi immaginare come reagì mia madre: la cosa importante erafare causa alla scuola, ai genitori di Ashton e chi ne ha più ne metta. Infinemi diede un abbraccio e disse: "Tesoro, stai bene? Ne hai passate davverotante." "Sto bene, mamma. La prossima settimana andrò a quelle ′lezionipunitive′ eritornerò a studiare, però adesso vorrei rimanere da sola." Ashton non lo vidipiù da quel giorno. Ogni tanto mi affacciavo alla finestra e aspettavo divedere una sagoma muoversi tra i rami, eppure non accadeva. Provavo a chiamarloe rispondeva la segreteria telefonica. Suonavo addirittura al campanello di casasua, solo che mi apriva la domestica che diceva sempre che la famiglia Irwinnon era in casa. Mi sentivo terribilmente in colpa. Se qualcuno mi avesse spiegatodove Ashton era andato a finire o se aveva avuto altri problemi di questogenere tutto si sarebbe svolto diversamente. Ecco perché ero così presa malequel giorno. Andai dritta dalla bidella più vicina. Le battei sulla spalla echiesi: "Mi scusi, sono qui per la..." "Si. Lungo il corridoio l'ultima porta adestra è lo sgabuzzino con le scope." Avrei potuto ucciderla; quanto le sarebbecostato lasciarmi finire la frase. Aprii la porta e come un'ondata di aria misi riversarono i ricordi di quella mattina. Il volto supplichevole di Ashton.Chiusi gli occhi sopraffatta dal senso di colpa e per cercare di buttare in un angolotutti i flashback. Una mano prese la mia e la strinse. "Mi dispiace, Gabbe."Fui attraversata da una miriade di emozioni, ma la cosa strana è che sembravache tu volessi scusarti per tutto: per la rissa con Ashton, per la nostralitigata, per la tua assenza e la tua impulsività. Appoggiai la testa sul tuopetto. "So come ti senti. Ricordati che non è colpa tua. Ashton non era deltutto sano. È successo anche alle medie con una ragazzina. Aveva iniziato...""Shh, non mi interessa." Non volevo più pensarci, anche se mi avevi tolto unbel fardello da sopra le spalle. Presi l'iniziativa e mi avvicinai a te. Io tibaciai. Sembrava surreale; normalmente eri tu che mi stampavi qualche bacio disorpresa sulle labbra. Dopo qualche minuto ci separammo. Mi sentivo meglio, miavevi rammentato che tu eri sempre qui al mio fianco. Tu mi presi il mento inmodo tale che i nostri sguardi si incrociassero. Nei tuoi occhi verdi c'era unostrano scintillio che li rendeva più brillanti. E sicuramente anche nei mieic'era lo stesso luccichio.    

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