CAP. 22: ROSE

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Verity vagava lungo i corridoi del castello alla ricerca di Dylan; doveva assolutamente vedere Rose e parlare con lei.
Si sentiva in colpa per come aveva reagito durante la missione, ma era stato più forte di lei. Vedere l’amica circondata dalla sua famiglia, solo a pochi giorni di distanza dall’ultima volta che si erano viste, era stato un brutto colpo.
Stavano scherzando sull’esame di maturità! Lei e Julie la stavano prendendo in giro per la sua stupida cotta!
E invece ora era rinchiusa da qualche parte nel palazzo, proprio con la sua stupida cotta che era diventato suo marito e i suoi due bellissimi bambini. Perché se l’erano presa con loro? Cosa voleva Kaspar Grendel dalla famiglia Light?
«Signora, adesso deve lasciarmi i suoi figli, voglio controllare che stiano bene»
La voce di Dylan la raggiunse da poco distante, attutita da un muro. Giusto! Le porte wŭdiane. Ed ora come faceva ad entrare senza conoscere il simbolo per aprire?
Si sedette sul pavimento freddo nella speranza che qualcuno uscisse.
«No. Non lascerò i miei figli! Chi siete? Dove ci troviamo?»
Rose. Avrebbe riconosciuto quella voce anche a distanza di anni.
«Per favore, ci deve assolutamente lasciare i suoi bambini» insistette il ragazzo.
Cosa aveva intenzione di fare ai figli della sua amica? Non avrebbe permesso loro di soffrire ancora, non per qualcosa che avrebbe potuto evitare.
«DYLAN FAMMI ENTRARE!» urlò, decisa a prendere in mano la situazione.
«è la voce di quella ragazza… Perché quella ragazza sembrava così disperata?» chiese la donna abbassando la voce.
Verity la immaginò toccarsi la punta del naso, come faceva di solito quando era pensierosa o preoccupata.
«Ehm… Lei… Ok, forse è meglio che vi faccia parlare»
Improvvisamente si aprì un varco nella parete mostrando un’altra stanza simile all’infermeria da dove era scappata poc’anzi.
«Verity» la chiamò Dylan facendole cenno di entrare.
La famiglia Light era seduta su un letto, il marito abbracciava moglie e figli. Avevano lo sguardo impaurito e i volti pallidi.
«Ciao» disse la ragazza titubante.
Nessun segno di riconoscimento da parte di Rose. Non un cenno, non un sorriso. Niente.
Era tutto vero.
Quindi se avesse incontrato la madre o il padre sarebbe stato così? Sguardo vacuo e sospettoso?
Perché aveva acconsentito? Perché? Non lo sapeva più ormai, forse, non l’aveva mai saputo davvero.
«Lei è Verity Watson. Qui la consideriamo una sorta di… divinità» spiegò Dylan ai presenti.
Finalmente ci fu un cenno di vita da parte di Rose, ma non era stato un gesto di riconoscimento o affetto. Rose aveva riso.
«Perché ridi?» chiese Verity, incredula e dispiaciuta.
«Una divinità che piange davanti al pericolo? Una divinità che non riesce a salvarsi? Una divinità egoista?» sputò acidamente la donna.
Tutto quel rancore…
«Rose…» sussurrò.
«Perché continui a chiamare il mio nome? Noi non ci conosciamo! Tu non mi conosci!» urlò stringendo a sé il figlio.
Dylan non parlava, si era spostato dal’altra parte della stanza e stava armeggiando con delle siringhe. Chissà cosa aveva in mente.
Riportò l’attenzione sull’amica, la vista le si era appannata e la testa girava. Era tutta colpa sua. Aveva voglia di vomitare, di scappare, di… Non sopportava essere messa di fronte alla realtà delle sue azioni, dei suoi sbagli.
Eppure era così: Rose era cresciuta e non si ricordava di lei, lei era rimasta uguale e portava sulle spalle il peso di una decisione importante.
Allora era così che si sentiva Atlante? Il peso del mondo era paragonabile a quello di vedere la sua vita sprecata?
«Rispondi» le intimò una voce maschile. Per la prima volta il marito di Rose aveva parlato.
«Papà, andiamo a casa?» chiese la figlia femmina.
A Verity si strinse il cuore. Ora avrebbe potuto essere considerata una sorta di zia per quella bambina e invece era lì, ferma, senza avere idea di cosa dire.
Dylan si avvicinò alla famiglia, quattro siringhe in un vassoio e i guanti bianchi.
«Cosa devi fare? Dylan, cosa hai intenzione di fare?» chiese allarmata.
«Verity, ora è meglio che tu vada» le intimò.
Rimase ferma. Se Rose stava per subire qualcosa lei voleva esserne messa al corrente.
«Watson. Vai. Via.» lo sguardo del ragazzo era stranamente fermo, ma non si fece intimidire.
Voleva la verità.
E la faccenda di Rose non è la verità? Eppure ti spaventa…
Guardò un’ultima volta l’amica, che ora era concentrata sulle siringhe del ragazzo, prese fiato e disse: «Rose, ti voglio bene, te ne ho sempre voluto… Ora tu non ricordi, ma io sì. Ti auguro… Tutto il bene del mondo»
Non appena terminò la frase scappò via. Decisa a lasciarsi i Light alle spalle.
Doveva dimenticarli. Doveva dimenticare tutto.
Stavano per uscirle le lacrime, ma non permise loro di vincere. Respirò profondamente ricacciandole indietro. Era sola nel corridoio buio, nessuna finestra a mostrarle il cielo notturno, nessuna apertura per farle respirare l’aria fresca. Era sola.
Perché era lì? Il rimorso e la paura cominciarono a divorarla dall’interno. Aveva sprecato la sua vita, aveva rinunciato a tutto per…
Daniel.
Quell’unica parola riuscì a dare un senso ai suoi pensieri. Daniel. Era ancora lì con lei. Le era sempre accanto.
Corse verso l’infermeria e aprì la porta. Anche quella stanza era buia.
Guardò i quattro letti occupati: Lydia aveva un’espressione rilassata, mentre Chris dormiva steso, con una piccola ruga in mezzo alle sopracciglia.
Anche Daniel era lì. Steso sul fianco destro, come amava dormire sin da bambino, il respiro veloce.
Stava sognando? Cosa lo faceva agitare?
Verity lo raggiunse e gli osservò il volto. Anche senza i suoi occhi grigi ad infonderle calore, le dava un senso di pace. Si stese affianco a lui, posando il capo sotto al suo mento e cercò di rilassarsi.
«Ver» sussurrò la voce di Daniel nel sonno.
Lei sorrise contro il suo petto quando lui la strinse a sé e continuò a dormire, ora col respiro regolare.
Era sempre stato così. L’uno era la forza dell’altra.
Le preoccupazioni scomparirono in quella dimensione così calma e, senza bisogno di sonniferi, si addormentò.

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