Capitolo nono *Boyd*

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Le ruote della mia sedia a rotelle strisciavano sul linoleum grigio dell'ospedale con un rumore soffuso che udivo a malapena.

Merda, stavo andando a trovare mio padre.

L'uomo che tante volte negli ultimi anni mi aveva lanciato bottiglie e insulti addosso.

L'uomo che troppe volte ero andato a recuperare nei bar quando veniva sbattuto
fuori.

L'uomo distrutto dal dolore che infangava il
ricordo di mia madre ed era stato crudele con i suoi stessi figli.

Ma anche l'uomo che quando ero ragazzino mi aveva disinfettato le sbucciature sulle ginocchia, mi aveva rimproverato per i brutti voti a scuola, mi aveva insegnato a giocare a football.

Mio padre.

Che stava morendo.

Cazzo.

"Siamo arrivati" mi disse l'infermiere che spingeva la mia sedia, fermandosi davanti ad una porta contrassegnata dal numero 312.

"Vuoi che ti accompagni dentro oppure..."

"Faccio da solo, grazie" lo interruppi.

Già era abbastanza faticoso accettare che mi scarrozzassero ovunque, ma almeno la possibilità di aprire una porta e di entrare in una stanza volevo avercela.

L'infermiere annuì e mi rivolse un cenno col capo prima di girarsi e sparire nell'affolato corridoio.

Fissai la porta come imbambolato, incapace di aprirla.

Cosa mi fermava?

Non avevo la minima idea di come l'avrei trovato, come mi sarei dovuto relazionare con lui.

Il mio corpo era dilaniato tra la voglia di entrare nella stanza e quella di scappare il più lontano possibile.

Presi un respiro profondo e poi mi decisi ad aprire quella maledetta porta: girai due volte le ruote della mia sedia a rotelle aiutandomi con le braccia ed improvvisamente fui davanti al capezzale di Edward Newmann.

La sua vista mi impressionò terribilmente, perché sembrava avere centonovanta anni.

La pelle era pallidissima, quasi trasparente, e lo faceva assomigliare più ad una creatura evanescente che ad un malato.

Era così magro che le ossa sembravano volergli bucare la pelle da un momento all'altro ma gli occhi, prima spenti e opachi, si animarono non appena mi vide.

"Boyd, figliolo. Speravo con tutto il cuore di vederti" mormoro con voce flebile.

Tutto in lui esprimeva debolezza e malattia: temevo che da un momento all'altro una folata di vento avrebbe potuto buttarlo giù dal letto.

"Papà... come ti senti?" gli chiesi, ben sapendo che era una domanda inutile.

Lui ridacchiò e sulle guance infossate mi parve di scorgere le fossette che ci caratterizzavano.

"Bando ai convenevoli, sto morendo e devo utilizzare al meglio il tempo che mi resta per dire ciò che mi preme a te e a tua sorella"

Le sue parole mi colpirono come un pugno nello stomaco: era di nuovo lui.

Non stavo parlando con l'alcolizzato fuori di sé, quello era mio padre al cento per cento, come io lo ricordavo.

"Voglio scusarmi, anche se so che saranno solo vane parole giunte troppo tardi. Dopo la morte di Elisabeth, della mamma, mi sono lasciato andare. Ho commesso l'errore più grande che un genitore può commettere: vi ho abbandonato. Mi sono dato all'alcool per dimenticare il dolore e ho reso la mia e la vostra vita un inferno. Mi dispiace, Boyd. Mi dispiace cosí tanto che non riuscirò mai a dirtelo davvero a parole. Avrei voluto essere un padre migliore, un padre capace di dimostrarvi il suo amore. Perchè io vi amo infinitamente, figliolo. Ti prego, non pretendo il tuo perdono, ma almeno credimi"

Una lacrima solitaria gli scivolò sul viso scheletrico ed io dovetti chiudere gli occhi per assimilare la potenza delle emozioni che quelle parole mi avevano suscitato.

Spinsi la mia sedia fino al suo letto e quando ci arrivai, gli presi la mano e gliela strinsi con delicatezza.

"Queste sono le uniche cose che avrei voluto sentire, papà. Ti perdono. Ti perdono perché sei mio padre ed è anche grazie a te se oggi sono l'uomo che sono. Per tanto tempo ho vissuto nella rabbia e nel rancore, ma ora sono cambiato. La ragazza che ho incontrato mi ha cambiato e mi ha dato la forza di perdonarti e di dirti che ti voglio bene" mormorai, tenendo a stento la voce ferma.

Mio padre singhiozzò, poi si sporse dal letto e mi abbracciò con tutta la forza che gli rimaneva.

Lo strinsi a mia volta e seppi con certezza che quella che avevo preso era la decisione giusta.

Perdonare era meglio del rancore, meglio di una vita passata a corrodersi nel rimprovero e nella rabbia. Ci ero arrivato.

Lei mi ci aveva fatto arrivare.

Prima di staccarsi dalla stretta, mio padre mi sussurrò nell'orecchio:

"Voglio assolutamente conoscere questa ragazza"

E sì, mi strappò anche un sorriso.

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