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Mitsuo si appisolò con la testa appoggiata al finestrino del taxi.

Poi l'auto sobbalzò, lui perse l'equilibrio e finì con la fronte contro lo schienale del sedile davanti a sé. Avvertì in lontananza il suono di una sirena. Meccanicamente, guardò l'orologio: erano le due e dieci. Aveva lasciato l'uni­versità S alle due, quindi era su quel taxi da dieci minuti. Doveva essersi assopito al massimo per due o tre minuti, ma aveva l'impressione che fosse trascorso molto più tem­po. Come se fossero passati giorni da quando aveva fatto visita a Kurahashi e aveva visto le foto dell'incidente. Tese l'orecchio verso quel brusio distante, che percepiva appena oltre i finestrini chiusi ed ebbe l'impressione di essere stato trasportato lontano a sua insaputa.

Il taxi era fermo da un po', ormai, imbottigliato sulla fila di sinistra, destinata alle auto che dovevano svoltare, men­tre sul resto dello stradone a quattro corsie il traffico scor­reva regolarmente. Mitsuo si sporse in avanti, per guardare nella loro direzione attraverso il finestrino. Intravide il se­gnale di un passaggio a livello che lampeggiava e la sbarra abbassata. Era solo un'impressione? Il ritmo dei lampeg­gianti e il suono della sirena gli sembravano stranamente sfalsati. Il suo taxi era bloccato per via del passaggio del Keihin Express. L'ospedale di Shinagawa si trovava pochi metri dopo quel passaggio a livello. Ma, una volta passato il treno, la sbarra non si alzò e la segnaletica luminosa an­nunciò l'arrivo di un altro treno, dalla direzione opposta. Il taxista sembrò rassegnarsi all'attesa: estrasse un'agenda dal cruscotto e si mise a scrivere qualcosa.

Non c'è fretta, pensò Mitsuo. Le visite ai malati termina­vano alle cinque, quindi poteva prendersela comoda.

Appoggiò la testa allo schienale del sedile, ma si raddriz­zò immediatamente: aveva la sensazione che qualcuno lo stesse osservando. Lo sguardo veniva dall'esterno, da poco distante, però. All'improvviso, si sentì come un campione di tessuto, infilato sotto un vetrino e osservato al microsco­pio. Sentiva quello sguardo incombere su di sé. Si girò a de­stra poi a sinistra. Poteva essere un conoscente che, da una macchina accanto, stava cercando di attirare la sua atten­zione. Ma non vide nessuno. Lanciò un'occhiata verso il marciapiede: niente. Cercò di convincersi che era solo sug­gestione, che non c'era nessuno là fuori che lo osservava. Quello sguardo, però, gli stava ancora addosso. Si voltò di nuovo, scrutando in tutte le direzioni.

Alla sua sinistra, oltre il marciapiede che correva lungo la ferrovia, intravide una leggera sporgenza. Tra l'erba alta, qualcosa di muoveva, poi si fermava, quindi si muoveva di nuovo. La creatura strisciava in avanti, alternando le soste alle riprese, senza mai staccare gli occhi da lui. Mitsuo non si sarebbe mai aspettato di vedere un serpente in un luogo simile. Gli occhi del rettile brillavano con intensità, illumi­nati dal sole di quel pomeriggio d'autunno. Non c'erano dubbi: era lo sguardo del serpente che Mitsuo aveva percepi­to. Quella consapevolezza risvegliò in lui un ricordo, ormai relegato nei meandri del subconscio: un episodio che risa­liva alla sua infanzia in campagna.

Era successo in una bella giornata di primavera. Tornan­do da scuola, aveva visto lungo la strada una piccola biscia, simile a una cordicella, distesa sul muretto che costeggiava il ruscello. In un primo momento aveva pensato che si trat­tasse di una fessura, però, quando si era avvicinato, il ser­pente si era arrotolato su se stesso, in posizione di difesa. Allora aveva afferrato una pietra, grossa come un uovo, l'a­veva soppesata e aveva cominciato a giocarci, facendosela passare sopra la testa, come un lanciatore di baseball. Era a qualche metro dal muretto e non credeva di poter mirare così distante, ma, con suo grande stupore, il sasso aveva preso il volo, finendo dritto sul cranio dell'animale, sfracel­landolo. Il rettile era caduto nell'acqua sottostante. Avan­zando di qualche passo nella sterpaglia, Mitsuo si era avvi­cinato all'argine, sporgendosi giusto in tempo per vedere la piccola carcassa trasportata via dalla corrente. Era stato al­lora che aveva avvertito lo sguardo. Ovviamente non erano gli occhi del serpente morto a fissarlo, ma quelli di un altro, di grossa taglia, che lo spiava nascosto tra il fogliame. La testa era immobile, ma quello sguardo inespressivo era puntato su di lui e lo fissava. Se il serpentello che aveva uc­ciso era il figlio di quello più grande, allora non c'era dub­bio che una catastrofe si stava per abbattere su di lui... Sì, il serpente gli stava lanciando una maledizione per punirlo di ciò che aveva fatto al suo piccolo... Nella sua mente di bam­bino, lo sguardo insistente del rettile aveva scatenato quegli orribili pensieri. La nonna gli ripeteva sempre: «Se uccidi un serpente il Cielo ti punirà!»

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