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Dentro di sé, sapeva bene che quel momento sarebbe arri­vato, prima o poi. In un certo senso, l'aveva presagito. Ep­pure, quando si trovò di fronte al cadavere della giovane donna, lo shock fu tale che per poco non cadde svenuto. Avvicinandosi a passo lento, dietro Nakayama e il poliziot­to, Mitsuo osservò quel viso livido, rifiutando di accettare la verità. I capelli erano incollati alla testa dalla fanghiglia, ormai secca. La pelle delle caviglie, incurvate in modo inna­turale, aveva un colore violaceo. Non c'erano tracce di strangolamento sul collo, non si notava nessuna ferita ap­parente.

Mitsuo aveva conosciuto quel corpo vivo, aveva deside­rato di sentirne il calore contro il proprio, di stringerlo tra le braccia. Quante volte l'aveva sognato? Ormai nulla poteva più accadere. Quel cadavere emaciato aveva perso la fre­schezza della vita. Quella donna, un tempo così bella, mo­strava un corpo crudelmente trasfigurato. Incapace di reg­gere quella visione, Mitsuo sentì una rabbia violenta cresce­re dentro di sé.

«No! Non è possibile!»

Sentendo quel grido uscire dalla bocca di Mitsuo, il po­liziotto e Nakayama si girarono verso di lui.

«La conosceva, professore?» domandò il primo, senza riuscire a dissimulare lo stupore.

Mitsuo si limitò ad annuire.

«E lei...» Nakayama, non sapendo il livello d'intimità che ci poteva essere tra lui e la donna, esitò.

Fu il poliziotto a intervenire, chiedendo con calma: «Sa dove abitava?» Quelle parole, pronunciate con aria un po' imbarazzata, mascheravano un certo sollievo. Se Mitsuo conosceva l'identità della defunta, si disse il commissa­rio, allora probabilmente l'indagine non sarebbe stata lunga e fastidiosa.

Senza rispondere, Mitsuo prese l'agenda e si mise a sfo­gliarla. Ricordava di aver annotato il numero di telefono e l'indirizzo della madre di Mai. Quando trovò la pagina, la mostrò al poliziotto. L'uomo lesse a bassa voce quelle infor­mazioni e, in tono cortese, domandò: «È sicuro di non sba­gliare?»

«Le confermo che si tratta senza dubbio della signorina Takano.»

Il commissario uscì subito dalla sala. Tra i suoi doveri, c'e­ra anche quello di avvisare la famiglia della vittima.

Lo squillo del telefono, poi, quando si solleva la cornetta, la voce autorevole di un funzionario di polizia che annun­ciava: «Sono dolente d'informarla che sua figlia è morta...» Immaginando la scena, Mitsuo rabbrividì. Sentiva compas­sione per quella povera donna che stava per affrontare la prova più dura della sua vita. Anche lei stava per conoscere quei momenti terribili. Non avrebbe urlato, non sarebbe scoppiata a piangere, ma il mondo intorno a lei avrebbe co­minciato a girare senza posa.

Non voleva restare in quella sala un minuto di più. Nel momento in cui il bisturi avrebbe inciso la carne di Mai, un odore di morte ancora peggiore di quello che già si avver­tiva avrebbe cominciato ad aleggiare nella stanza. Quando i ferri incidevano l'addome, foravano le viscere e arrivavano fino alle interiora, l'olezzo diveniva davvero insostenibile. Mitsuo conosceva quell'odore nauseabondo e, in quel mo­mento, sapeva che non l'avrebbe tollerato. Per quanto bello fosse un corpo, finiva inevitabilmente per emanare effluvi sgradevoli. Mitsuo sapeva fin troppo bene che era quello il destino di tutti gli esseri umani. Quella volta, però, si la­sciò travolgere dall'emozione, neanche fosse un medico alle prime armi. Voleva evitare che il ricordo di quelle esalazio­ni stomachevoli restasse legato a quello del viso di Mai.

Si chinò verso Nakayama e lo informò, con discrezione, che se ne stava andando.

«Ah, non resta?» replicò il collega, con fare sospettoso.

«Ho del lavoro da fare al laboratorio di ricerca. Mi potrà fornire i dettagli più tardi.»

«Sì, sì, va bene.»

Mitsuo gli posò una mano sulla spalla e disse a voce bas­sa: «Presti particolare attenzione alle arterie coronarie. E, soprattutto, prelevi da lì un campione di tessuto».

Nakayama non capiva come Mitsuo potesse avere un'i­dea così precìsa della causa del decesso. «Soffriva di pro­blemi cardiaci?» chiese.

Mitsuo si limitò a premere con più forza la mano sulla spalla, mormorando: «Faccia come le dico, per favore».

Pronunciò quella frase come fosse una preghiera, sugge­rendo al collega che non aveva una riposta per la sua do­manda. L'altro medico sembrò leggergli nel pensiero e, sen­za aggiungere altro, annuì vigorosamente.


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