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Una settimana dopo l'autopsia di Mai, il tempo volse deci­samente al brutto. Era l'inizio di dicembre e l'inverno era ormai alle porte.

Un tempo, Mitsuo odiava l'inverno e amava la primave­ra e l'estate, ma, dopo la morte del figlio, i cambi di stagio­ne gli erano diventati indifferenti. Quella mattina, però, av­vertendo un gelo penetrante, si rese conto che l'inverno era prossimo. Sulla strada verso l'università fu tentato più volte di fare marcia indietro, tornare a casa e infilarsi un altro golf. E non lo fece soltanto perché gli seccava tornare indie­tro. Inoltre quella camminata lo stava riscaldando un poco.

L'ospedale universitario non era molto distante dal suo appartamento a Sanmiyabashi. Mitsuo, che non faceva mai esercizio fisico, preferiva recarsi al lavoro camminando o correndo, piuttosto che prendere il metrò e dover cambia­re linea, nonostante il tragitto breve. Era ciò che aveva in­tenzione di fare anche quella mattina, ma, alla fine, cambiò idea e all'ultimo momento prese la metropolitana. Voleva arrivare il prima possibile.

Doveva scendere dopo appena due fermate e non ebbe il tempo di riflettere, anche perché era molto impaziente. Quel giorno, avrebbe esaminato al microscopio le cellule di Mai e di Ryuji e lo avrebbe fatto con Miyashita e Nemoto, che era un esperto in materia.

Fino ad allora, se si escludevano coloro che avevano guardato il video, non erano state scoperte altre persone in­fettate da quel virus simile al vaiolo e non erano stati nep­pure segnalati contagi dovuti a contatto fisico. Inoltre, a ca­sa di Mai, lui aveva trovato quella cassetta cancellata. Se il virus in questione fosse stato presente nelle cellule di Mai, allora si poteva essere certi, senza ombra di dubbio, che lei aveva visto il video o, in altre parole, che il cambiamento fisico avvenuto nel suo corpo era da attribuire alla cassetta.

Mitsuo era salito da poco sulla carrozza, quando le porte si aprirono e lui si ritrovò spinto sulla banchina. Seguì il flusso di gente fino all'uscita. L'imponente sagoma del pa­lazzo universitario s'innalzava di fronte alla stazione.

Non appena entrò nel laboratorio di ricerca, il volto di Miyashita s'illuminò. «Ah, ti stavo aspettando!»

Durante la settimana precedente, Miyashita e Nemoto avevano preparato il necessario per l'esame di quel giorno. Non era banale visualizzare un virus, nemmeno con un mi­croscopio elettronico. Andava svolta tutta una serie di ope­razioni e, non essendo uno specialista in materia, Mitsuo non poteva occuparsene direttamente. Anche Miyashita sembrava attendere quel momento con impazienza e aveva passato la prima parte della mattina a controllare ogni det­taglio.

«Abbassate le luci», cominciò Nemoto.

«Okay!» replicò Miyashita, in tono eccitato, e obbedì.

Sul suo volto era dipinta un'espressione estatica. Aveva analizzato la composizione delle basi chimiche, ma era la prima volta che poteva osservare il virus scoperto nel san­gue di Mai e di Ryuji.

Nemoto entrò nella camera oscura e sistemò il vetrino sul supporto. Nel frattempo, Mitsuo e Miyashita rimasero seduti in silenzio, lo sguardo fisso sul monitor ancora buio. Eppure i loro occhi si muovevano di qua e di là, come se le immagini fossero già apparse su quella superficie nera. Ne­moto li raggiunse subito dopo e spense l'ultima lampada. Tutto era pronto. I tre uomini fissavano il monitor, quasi trattenendo il respiro. Dopo qualche istante, il microscopio elettronico illuminò il vetrino e un microcosmo apparve da­vanti ai loro occhi.

«Di chi sono quelle cellule?» chiese Miyashita a Ne­moto.

«Di Ryuji.»

Le macchie verdi apparse sullo schermo formavano un mondo a parte. Azionando un comando, l'apparecchio mo­strava la superficie delle cellule. Il virus si nascondeva da qualche parte, all'interno di quell'universo.

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