Pov Yves
Le lancette dell'orologio continuavano a girare, alimentando l'angoscia, che provavo nel non veder comparire Leonard dalla porta.
Ogni terzo sabato del mese, trascorreva la giornata insieme alla sua numerosa famiglia, costituita da persone spregevoli.
Ed io, come al solito, aspettavo che tornasse per raccogliere i pezzi e rimetterli insieme, anche se diventava sempre più difficile.Leonard era la perfetta vittima della violenza psicologica subita sin dall'infanzia.
Le sue paure, le insicurezze, il voler mollare l'unico sogno che l'aveva tenuto in piedi, tutto frutto della cattiveria di coloro che l'avrebbero dovuto amare, proteggere e spronare a inseguire i suoi obbiettivi, qualsiasi essi fossero.Non sapevo quanto Leo, avrebbe continuato a tener duro, senza crollare definitivamente. Ogni volta, ritornava dagli incontri con gli occhi più spenti del solito, come se gli avessero succhiato via, un altro piccolo pezzo di sé.
Ero il suo migliore amico da sempre ma non lo avevo ancora salvato, la persona che lo avrebbe fatto probabilmente era là fuori, da qualche parte e pregavo che incrociasse il suo cammino il più presto possibile, prima che fosse troppo tardi.
"Yves?" la voce di Vincent, dall'altro capo del telefono, mi riscosse, distogliendomi dai vari pensieri.
"Sì, scusa.. Da un momento all'altro deve arrivare" dissi, spostando gli occhi sulla porta ancora chiusa, sperando che si aprisse e Leo entrasse meno distrutto di ciò che credevo.
"Possibile che la sua famiglia sia così meschina?" domandò con un sospiro di rassegnazione Vincent, facendomi stringere nelle spalle.
"Non si può capire finché non si è in mezzo a quelle persone ma Dio, Leo non si merita tutto questo! Soprattutto quando riesce per un breve lasso di tempo a credere in sé stesso. Poi arrivano loro e spazzano via le briciole di autostima, come sabbia al vento" serrai la mano libera in un pugno, sopra al ginocchio.
Nonostante tutto, Leonard continuava ad assecondare quella stupida richiesta di vedere la sua famiglia almeno una volta al mese, per non far fare brutta figura ai suoi genitori.
Fosse stato per me, li avrei volentieri presi a calci, uno ad uno, facendoli scendere dai piedistalli immaginari, su cui credevano di sedere.
La serratura scattò e mi affrettai a interrompere la chiamata per prestare tutta l'attenzione a Leo.
"Ehi.." mormorai, raggiungendolo a passi svelti.
Chiuse la porta, lasciando le chiavi nel piattino e spogliandosi della giacca in silenzio. Si voltò per lanciarmi un'occhiata e un cenno con il capo che non mi bastò come saluto.
"Leo.." lo bloccai in mezzo al corridoio, afferrando entrambe le sue braccia, cercando un contatto visivo che mi fu negato.
"Sono indietro con una sceneggiatura, è meglio che mi metta al lavoro" rispose, ignorando ogni mio tentativo di farlo parlare.
Infine, lo lasciai andare, decidendo che forse occuparsi del suo mondo astratto, lo avrebbe aiutato a evadere dalla realtà cruda.
Ma bastò circa un quarto d'ora affinché il mondo immaginario di Leo, si sgretolasse, parola per parola, ad ogni nuovo strappo.
Quando mi precipitai nella sua stanza, era già troppo tardi. Pezzi di carta volavano, sparsi qua e là, in mezzo a loro, Leo calciava una sedia, scaraventandola al muro e disperato, ringhiava parole sconnesse.
"Leo! Leo calmati!" urlai sul punto di piangere, facendomi strada tra le sue paranoie per raggiungerlo e tentare di salvarlo.
"Hanno fottutamente ragione loro! Sono tutte stronzate!" sbraitò, afferrando alla rinfusa altri fogli dei suoi lavori per stracciarli, distruggendo qualcosa su cui aveva messo impegno.
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Atychiphobia
Teen FictionATYCHIPHOBIA {paura spropositata, ingiustificata e persistente di fallire e di commettere sbagli}