6. Ombre

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Avevo sperato che il pranzo durasse meno di così, invece eravamo rimasti a tavola per molto tempo. Mia nonna sembrava adorare Vladimir, così come mia sorella. Ad un certo punto mi ero alzata, scusandomi con tutti loro, con la scusa di andare in bagno. Nessuno sembrava avermi sentita, se non fosse che Vladimir si era girato leggermente verso di me, tornando poi ad ascoltare i racconti di mia sorella.

Chiusa in bagno, davanti allo specchio, guardai le mie lacrime scendere che si portavano via il trucco, lasciando dei solchi sulla mia pelle tra il nero e il marrone. Stupida. Continuavo a ripetermelo, l'insicurezza si era insinuata così in profondità nel mio cervello e nel mio cuore, così subdolamente e silenziosamente, che non me ne ero nemmeno accorta.

Mi guardai ancora per qualche istante, poi staccai le mani dal bordo del lavandino, che era rimasto stretto tra le mie dita in modo convulso. Aprii il rubinetto, e cercai di darmi una sistemata. Dovevo uscire di casa, andarmene, avevo bisogno di stare da sola. Avevo bisogno di respirare. Mi pareva di non averlo fatto per tutto il tempo in cui eravamo rimasti seduti a tavola.

Una volta risistemato il trucco meglio che potevo, sgattaiolai fuori dal bagno, più silenziosamente che riuscii, dritta verso la porta d'ingresso, in punta di piedi, con le scarpe sulle mani per non far udire i miei passi. Presi la cartellina con i miei curriculum, la borsetta e il giacchetto. Girai il pomello, tipico delle vecchie case, senza far rumore. Credo di aver fatto invidia al passo felpato di un gatto in quel momento. Riuscii a richiudermi la porta alle spalle senza far sentire nemmeno il rumore del chiavistello che si riassestava.

Infilai le ballerine e mi precipitai fuori, scendendo le scale di corsa. Non chiamai nemmeno l'ascensore, per non far rumore. Una volta fuori, l'aria fresca mi colpì il viso. Sentii il sangue riaffiorare sulle mie guance, così ripresi a respirare, finalmente. Mi appoggiai al muro, giusto il tempo di riprendermi dalla sensazione che mi opprimeva i polmoni. Il peso sul diaframma iniziò a dissolversi. La fermata della metro non era distante a piedi, mi staccai dalla parete fredda, decisa a mettere quanti più metri possibili tra me e Vladimir.

Scesi le scale della metro, vidimai il biglietto, e in pochissimo tempo ero ferma sulla banchina ad aspettare la metropolitana. Per me era una novità, a Viterbo non c'erano le metro. Ma Roma era molto più grande a confronto, e muoversi senza di essa sarebbe di sicuro stato un problema. L'attesa mi pareva interminabile, guardavo in continuazione il piccolo schermo in alto che annunciava i minuti rimanenti all'arrivo del treno. E anche quando segnò un minuto, mi parve di aver atteso per un'ora.

Nervosamente, ticchettavo con le unghie sulla cartellina di colore viola laccato che conteneva i miei curriculum, e ogni tanto controllavo l'entrata della banchina, per paura che Vladimir potesse seguirmi. Non mi resi conto che stavo trattenendo il fiato fin quando il treno non arrivò e dopo essersi fermato, aprì le porte per permettere alle persone di entrare. Salii e cercai un punto a cui reggermi. Le metro di Roma erano costantemente piene, e non si trovava un posto a sedere nemmeno a pagarlo.

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