Il piano

103 17 33
                                    

Convincere qualcuno a fare qualcosa è un'arte. Con delle semplici parole, si deve fare in modo che l'altro pensi che sia la cosa giusta da fare. Può sembrare diabolica, e in effetti lo è, a volte. Ma, quando la paura e la morte si fanno vicine, ciò che è diabolico spesso diventa necessario.

•••

L'orologio del bar in cui ero entrato poco prima segnava le 12:30. Ricordandolo, sorrisi leggermente. Il piano poteva avere esito positivo. Nel caso in cui, al contrario, non avesse funzionato... la situazione non poteva certo precipitare.

Presi l'anello tra le dita. Era freddo, a causa dell'aria all'aperto. Lo infilai sotto la maglietta. Poi misi anche il cappello da baseball. Per il momento, era il massimo che potessi fare per camuffarmi.

Ero pronto per cominciare.

Camminai velocemente, a testa bassa, e feci in modo di finire contro una delle due turiste di poco prima, all'apparenza per sbaglio.
Non venni spinto con troppa forza dall'impatto, ma buttandomi per terra feci pensare di essermi fatto male.

Era quello il mio obiettivo, far pensare alle due donne che fossi piccolo e bisognoso di aiuto.
In effetti, ero davvero bisognoso di aiuto.

«Ehi!» disse la donna dopo essere stata urtata «Stai più attento!»
«M-mi s-scusi...» risposi sussurrando.

Quando vide che ero solamente un bambino, lo sguardo della donna si addolcì e si accovacciò leggermente, con le mani sulle ginocchia. Nonostante la voce grave, era graziosa, con un caschetto di capelli neri e occhi castani dal taglio gentile.
«Stai bene, piccolo?»
«Sì...» risposi, sempre timidamente.
Non la guardavo in faccia mentre parlavo. Sperai di dimostrare almeno due anni in meno.
«Sicuro?»

Adesso il suo tono era dolce.
L'altra donna che era con lei, più grassottella rispetto alla prima, ma con gli stessi occhi e un'espressione dolce quanto la compagna - che, immaginai, dovesse essere sua sorella - mi tese una mano, che afferrai lentamente. Lei diede uno strattone e in pochi secondi fui in piedi.

«Mi scusi» ripetei, con lo sguardo puntato sulle mie scarpe, per poi correre via.

Ero certo che i due paia di occhi identici delle due donne mi stessero seguendo. Dopo pochi passi, curandomi di non confondermi tra la folla, mi fermai e tornai indietro.

Come previsto, le donne non mi avevano tolto gli occhi di dosso. La più grassottella si chinò e sussurrò qualcosa all'altra, poi, accigliate, mi videro superare un uomo in giacca e cravatta e arrivargli vicino.

«Scusi, signora...» dissi, non rivolgendomi a una in particolare.
«Sì?» Il volto grazioso era acceso di curiosità.
«Io... Ecco... Potrebbe... No, no, niente non importa.»
«Cosa? Non essere timido, piccolo! Hai bisogno di qualcosa?»

Per poco non alzai gli occhi al cielo.

In effetti avrei bisogno che un mostro smettesse di cercarmi, di un posto sicuro, di essere certo che non sono pazzo e di diverse lenti colorate. Ma le più importanti sono le lenti, ovviamente.

«Potrebbe... potrebbe farmi un favore?»
«Certo, dimmi pure.»
«I miei genitori mi hanno mandato a comprare delle lenti colorate come regalo di compleanno di un mio amico... In quel negozio.» Indicai il negozio con l'offerta delle lenti in vetrina.
«Solo che io mi vergogno a chiederle... Potrebbe andare a comprarmele lei?»
Sfoderai la mia migliore faccia supplicante.
«Ti vergogni di andare in un negozio per comprare delle lenti ma non di chiedere ad una turista che hai visto oggi per la prima volta?» La donna era un misto di divertimento e confusione. Inarcò un sopracciglio.
«Perché lei mi sembra una brava persona, e poi mi ricorda tanto la mia cara zia. Mia zia è gentilissima e tanto buona con me...» risposi con una voce un po' supplicante.

La turista sembrò addolcirsi a quelle parole. Sembrava davvero una brava persona, così come la compagna. Entrambe avevano un'espressione fiduciosa.
Ovviamente, non mi ricordava nessuno, a partire dal fatto che non ho mai avuto zie.

Mi sentii quasi cattivo a mentirgli.
Ma non avevo tempo di pensare anche a queste cose.

«Va bene, di che colore vuoi le lenti?»
Ricompensai la donna con un sorriso radioso.
«Marrone nocciola.»

La donna poi si rivolse alla compagna.
«Rimani tu con lui, Lucy?»
Lucy annuì, e, dopo averle dato un po' di soldi, la donna partì alla volta del negozio.

Non guardavo la turista, per evitare che memorizzasse i miei lineamenti: mi ero già esposto a sufficienza. Sistemai il cappello che avevo recuperato da terra, in modo che mi coprisse la maggior parte del viso.

Ogni tanto alzavo gli occhi verso il negozio. Era piccolo e quasi vuoto, evidentemente non uno di quelli che faceva molta fortuna.
La vetrina esponeva diversi tipo di lenti colorate e teste di manichino con occhiali di tutti i tipi: da vista, da sole, tondi, squadrati, a montatura massiccia o fine. Ce n'era persino un paio a mezzaluna, che mi fecero venire in mente uno dei libri che avevo letto.

Nel frattempo, molte persone mi passavano accanto. Facevo di tutto per non guardarmi intorno e non lasciare sospetti, ma, in realtà, ero tremendamente nervoso: quel mostro avrebbe potuto raggiungermi in qualunque momento.

La mia mano si spostò a cercare l'anello che portavo al collo, ma mi fermai prima di sfilarlo da sotto la maglietta. Per quanto fossi nervoso, non potevo permettermi un segno di riconoscimento così importante.

Quando, finalmente, la donna uscì dal negozio con una scatolina in mano, tirai un sospiro di sollievo.

La donna graziosa mi consegnò anche il resto: poche monete che tintinnarono cadendo sul fondo dello zaino.
Ringrazia le due donne e corsi via.

Fra tre ore le turiste si sarebbero imbarcate, il che significava che tra un'ora e mezzo al massimo sarebbero state in aeroporto.
E, con un pizzico di fortuna, la notizia della mia scomparsa non sarebbe giunta alle loro orecchie prima che il caso non fosse diventato di dominio internazionale.

Missione compiuta: avevo un travestimento.
La fuga poteva avere inizio.

Cronache di un MezzosangueDove le storie prendono vita. Scoprilo ora