La fuga

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Non esiste un limite al male. Può essere paragonato ad una galleria immersa nell'oscurità, con una flebile luce che si intravede in lontananza, a segnalare l'uscita.
Nella galleria si è come intrappolati in un incantesimo: una volta entrati, risultano irraggiungibili sia l'ingresso che l'uscita, bloccandoci in un limbo infinito dal quale è quasi impossibile fuggire.
L'unica cosa che conosciamo della galleria, esattamente come del male, è ciò che si trova all'inizio, l'oscura introduzione che ci catapulta all'interno del tunnel.
Mai abbassare la guardia.
Mai sottovalutare l'entrata di una galleria.

•••

Non ricordo molto bene cosa successe durante il viaggio di ritorno, ero troppo sotto shock perché il mio cervello riuscisse a elaborare al meglio le informazioni.

Mi sentivo terribilmente svuotato e distrutto, come se una parte di me fosse soffocata insieme a Michael.
C'era solo una cosa che la mia mente annebbiata diceva con certezza: salvati.

Ricordo solo che il viaggio fu incredibilmente veloce, tanto che mi domandai se ci fosse stato davvero.

Corsi a perdifiato, senza fermarmi né voltarmi indietro nemmeno una volta, oltrepassando gruppi di persone che trascorrevano con calma la propria vita. Nessuno di loro si preoccupava del fatto che la loro esistenza avesse un termine, che sarebbe potuto giungere molto prima di quanto pensassero. Ma d'altronde, fino a poco tempo prima, fino a quando il flusso della mia vita non aveva imboccato una strada sconosciuta, avevo vissuto esattamente come loro.

Il tempo era peggiorato ancora, e diventava sempre più scuro e minaccioso ad ogni passo. Con uno squarcio nella tempesta che imperversava nella mia mente, pensai che anche il cielo avrebbe pianto la morte di Michael con le sue innumerevoli lacrime, che gli umani chiamano gocce.

Distrutto sia per la corsa che per i pensieri, raggiunsi l'orfanotrofio, di cui spalancai il portone scuro, per poi gettarmi tra i corridoi deserti. Il resto delle persone che abitavano quelle mura era riunito in sala mensa per la consueta spiegazione della messa. Non mi avrebbe visto nessuno.

Mi infilai nella mia stanza e chiusi a chiave la porta. Non appena il click della serratura raggiunse le mie orecchie, mi lasciai scivolare contro il legno, portandomi la testa tra le mani. Tremavo dalla testa ai piedi e respiravo in fretta. Sentii una goccia di sudore scivolare lungo tutta la spina dorsale, segno che stava sudando copiosamente.
Ogni centimetro del mio corpo era pervaso dalla paura, che mi aveva investito non appena era terminato la carica di adrenalina.

Avevo paura di quel mostro, avevo paura che potesse trovarmi e stroncare la mia vita come aveva fatto con Michael, che potesse fare del male alle persone che mi stavano intorno, rendendomi responsabile di un'altra morte.

Michael.
Ripensare a lui mi fece singhiozzare. Era morto, non lo avrei più rivisto. Non avrei mai più sentito la sua risata né le sue battute. Nel mio cuore si era già formato un cratere nel punto in cui prima si trovava lui, come se un proiettile mi avesse colpito in pieno.

Non ero nemmeno intervenuto in nessun modo.

D'altro canto, cosa avrei potuto fare? Non avevo la possibilità di chiamare nessuno e se avessi tentato di salvarlo sarei sicuramente morto anch'io, mi dissi, ma non appena lo pensai, capii che erano soltanto delle banali scuse.

Se mi fossi fatto avanti, forse Michael sarebbe riuscito a scappare, e magari sarebbe riuscito anche a chiamare aiuto. E invece ero impietrito dalla paura ed ero rimasto lì, con gli occhi spalancati e il cuore a mille, senza fare niente, a osservare la vita che lo abbandonava.

Piansi. Non per molto tempo, ma piansi. Mi sfogai per tutto ciò che era successo, a partire dal fatto che ero orfano, fino ad arrivare agli eventi di quel giorno.

Piangere mi snebbiò la mente, e riuscii a calmarmi quel tanto che bastò a riscuotermi.

Mi alzai e mi guardai allo specchio.
Vidi degli occhi spalancati e rossi di pianto, un viso rigato di lacrime con un'espressione folle e al tempo stesso distrutta.

Devo andarmene.

Mi era capitato di pensarlo, in 9 anni all'orfanotrofio, ma quella fu l'unica volta in cui il pensiero fu serio, reale.

Andai in bagno e mi sciacquai il viso. L'acqua gelata mi svegliò del tutto.
Tornai nell'altra stanza e afferrai il vecchio zaino grigio che utilizzavo per andare a scuola. Lo capovolsi e libri e quaderni caddero sul letto. Il libro di Storia e Mitologia scivolò a terra, e io lo raccolsi senza pensarci, con un gesto automatico.

Velocemente, riempii lo zaino di tutto ciò che poteva servirmi: vestiti, acqua, medicine e oggetti del pronto soccorso.

Speriamo che servano a qualcosa per curare le ferite che mi procurerò, commentai dentro di me con l'ennesimo brivido.

Aggiunsi dei soldi che avevo da parte, prendendo anche quelli di Michael.

Tirai fuori dall'armadio un cappellino da baseball con visiera, del tipo che viene regalato a eventi sportivi di qualsiasi genere, e lo infilai nello zaino.

Poco dopo mi venne in mente che avrei dovuto sicuramente dormire all'aperto, per cui, al fine di evitare l'ipotermia, presi la coperta che era stesa sul letto, che era ormai l'unico oggetto ancora in ordine di tutta la stanza, nella quale sembrava essere passato un ciclone.

Presi anche la sveglia dal comodino: avrei potuto aver bisogno di sapere che ore fossero, e l'ultima cosa al mondo che potevi ricevere al San Lawrence era un orologio. D'altra parte, a San Francisco, se qualcuno si chiedeva l'ora, nel giro di 10 minuti al massimo riusciva a venirne a conoscenza, con tanto di secondi.

Attraversai la stanza con poche, lunghe falcate, come se sprecare meno energie mi aiutasse ad accettare che stavo abbandonando quel luogo in cui ero cresciuto per sempre. Voltai le spalle alla porta e analizzai per un'ultima volta la camera, la posizione dei mobili, degli oggetti, l'innaturale odore di pulito.

Dovevo andarmene.

Come a voler eseguire un gesto definitivo, trassi un profondo respiro e mi sfilai il crocefisso dal collo. Lo poggiai sul letto di Michael. Sapevo che avrebbe ricevuto una croce ben più bella e importante di quel piccolo oggetto di legno, ma per me significava qualcosa, e sperai che anche a lui, ammesso che potesse vederlo, importasse di quel gesto, di quell'unica e inutile cosa che potevo fare.

Poi lasciai la stanza, portando come solo uno zaino e troppi ricordi.

Ancora nessuno nei corridoi. Calcolai di avere non più di quindici minuti prima della fine della spiegazione. Mi avviai rapidamente verso l'uscita, oltrepassando varie porte senza degnarle di un'occhiata.

Raggiunsi la cucina, dove trovai la porta aperta, ed entrai. Rovistai nel modo meno vistoso possibile, prendendo tutto il cibo che potei e che entrò nel mio zaino.
Presi anche un affilato coltello da cucina: senza armi sarei stato indifeso, una fragile preda.

Nel poco tempo rimasto, raggiunsi l'uscita.
Aprii il portone e scivolai fuori, nel vento.

Non aveva cominciato a piovere, nonostante fosse tutto coperto: sembrava che il cielo stesso fosse troppo sconvolto per versare lacrime.

Cronache di un MezzosangueDove le storie prendono vita. Scoprilo ora