La mensa

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Nella nostra vita, prima di scoprire di essere semidei, diamo per scontate molte cose, dalle più semplici alle più complesse, senza nemmeno accorgerci di questo processo. Mangiare, bere, dormire, vivere con tranquillità sono solo alcuni esempi di questo.
Dopo, dovrete lottare per tutte queste cose, e in palio ci sarà anche la vostra vita.

•••

La mensa era la stanza più grande di tutto l'orfanotrofio. Se le finestre venivano chiuse, appariva buia e quasi asfissiante, con le ombre scure degli oggetti proiettate sulle pareti color avorio. Sulla parete di fronte all'entrata troneggiava un crocefisso di grandi dimensioni.

Avevo sempre pensato che quella posizione fosse in qualche modo "stategica": precisamente di fronte all'ingresso, all'altezza degli occhi, così che fosse impossibile non lasciarsi catturare dalla sua attrazione magnetica. Lo vedevi. Saltava subito agli occhi, grazie al contrasto che il legno scuro produceva insieme alle rifiniture dorate.

All'interno della stanza c'erano due grandi tavoli rettangolari in legno, disposti quasi al centro, con un totale di 24 sedie, collocate ordinatamente. In tutto, al San Lawrence eravamo in 24, di cui 4 suore.

Nella stanza non c'era nient'altro, tranne un piccolo lampadario sul soffitto, e la mancanza di mobilia o decorazioni di qualunque tipo faceva sembrare la stanza ancora più grande e scura nei giorni bui.

Quel giorno le due finestre facevano entrare molta luce, per cui il lampadario era spento e la mensa appariva un po' più accogliente del solito.

In pochi istanti, l'inaspettato senso di accoglienza venne spazzato via da un turbine di antipatia, materializzatosi sotto forma di Veronica, una nostra compagna dell'orfanotrofio.

«Stanno per servire la colazione, sbrigatevi!» disse con tono antipatico. La sua voce era così stridula che la mia prima reazione fu di chiudere gli occhi con una smorfia, esattamente come se mi fosse stato puntato un fascio di luce sugli occhi.
«Sbrigati, sbrigati, sbrigati... Ma non sapete dire altro? Da quando mi sono alzato non ho fatto altro che sbrigarmi! Cos'è? È cominciata una corsa e non mi hanno detto niente?» ribatté sarcasticamente Michael.
«Accidenti, devo andare, sono in ritardo per la staffetta 4x100!» risposi con finto tono drammatico, ed entrambi scoppiammo a ridere, sotto lo sguardo gelido e odioso della ragazzina.

Dopo un'occhiata assassina, Veronica si avviò verso il suo tavolo, e i suoi passi rimbombarono come colpi di frusta, che fungevano da complemento al suo umore.

«Mi sta davvero antipatica! Pensa sempre di essere superiore agli altri!» disse Michael.
«Già. Però dobbiamo stare attenti con lei: è la cocca delle suore ed è capacissima di andare a dire loro tutto.»
«Ti preoccupi sempre troppo!» fece lui, mentre ci sedevamo negli ultimi due posti rimasti nello stesso tavolo di Veronica, che, tanto per essere più simpatica, non ci guardò neppure.

La mia risposta fu interrotta dall'ingresso delle quattro suore con la colazione.
E, come sempre prima di mangiare, dovevamo ripetere la preghiera di ringraziamento a Dio per il cibo ricevuto. Nei minuti successivi, la mensa si riempì di parole sacre che volteggiavano in aria, tutte con intonazioni tanto diverse tra loro da sembrare termini differenti.

Dopo la preghiera, iniziammo tutti a mangiare. Il brusio di voci che fino a quel momento aveva aleggiato nella stanza si spense, lasciando il posto al tintinnare delle posate e dei bicchieri.

Una volta finita la colazione, cominciammo a prepararci per andare in chiesa. La messa, ovviamente, era obbligatoria ogni domenica. Ci misero in fila a coppie e ci ripeterono tutte le regole che dovevamo osservare all'interno del luogo di culto.

Mentre loro parlavano io ero immerso nei miei pensieri. Pensavo al libro che stavo leggendo negli ultimi giorni. Un libro di musica.

Adoravo la musica, soprattutto quella per violino e pianoforte.
Non potendo permettermi altro, suonavo uno dei violini della scuola, all'epoca, ed ero anche "abbastanza promettente", come diceva il mio professore di musica.

Uscimmo tutti insieme dal portone dell'orfanotrofio e cominciammo a percorrere il marciapiede, con il rumore delle auto che ci accompagnava per la strada. Eravamo in fila, ordinati, come ci si aspettava da noi, dopo averlo fatto così tante volte. Riuscivo a sentire il respiro di Michael vicino al mio collo, mentre un leggero vento mi appiccicava la maglietta al corpo.

Il sole prometteva una bella giornata, una di quelle giornate in cui pensi che non possa succedere nulla.

Una di quelle giornate in cui ti senti tranquillo e abbassi la guardia.
Una di quelle giornate in cui alla fine ti maledici per averlo fatto.

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