Cioccolato al latte

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Il cielo londinese non mi era mai sembrato più grigio di quel freddo pomeriggio di autunno.

Seguii attentamente il percorso di una foglia gialla finché non toccò il suolo, per poi distogliere lo sguardo e puntarlo sui miei piedi.

«Cecilia.»

Sentendo pronunciare il mio nome mi voltai verso il ragazzo, che in quel momento appoggiò l'ultimo scatolone sul pavimento.

«Dove hai messo le altre scatole da portare qui?» chiese lui, mentre io puntai nuovamente lo sguardo fuori dalla finestra.

«Quella era l'ultima,» risposi, stringendo le mie gambe al petto e afferrando fra le dita l'orlo delle maniche del mio maglioncino beige.

«Oh.» Si guardò intorno un po' stupito. Forse si aspettava che mi fossi portata dietro almeno una quindicina di cartoni, ma in quelle tre scatole di piccole dimensioni era contenuta ogni cosa in mio possesso. Subito dopo un silenzio imbarazzante calò nella stanza, ma cosa avremmo dovuto dirci? Faticavo persino a ricordare il suo nome.

Senza alcun apparente motivo, strinsi maggiormente le mie gambe. Probabilmente la causa era il freddo, o magari il fatto di voler occupare meno spazio possibile su quelle mattonelle.

«Puoi anche alzarti e fare un giro dell'appartamento o prepararti un tè caldo, non so. Questa è casa nostra, adesso,» commentò, grattandosi il collo leggermente in imbarazzo.

Sobbalzai sentendo quelle parole e voltai di scatto la testa verso di lui, facendo ondeggiare i miei ricci color rame.

«Nostra?» balbettai incredula, mentre lui sgranò gli occhi.

«Non in quel senso! Non intendo che ci sposeremo o cose del genere,» si affrettò a dire.

«Avevo capito il senso, è solo che...» mi interruppi, perdendomi fra i miei pensieri e socchiudendo leggermente le labbra.

«Che...?» mi incitò a continuare lui, dopo qualche altro istante di assordante silenzio.

«Sì, insomma, l'aggettivo nostra sottintende anche mia e mi è sembrato un po' strano, tutto qui,» risposi, lasciandolo probabilmente pieno di dubbi, ma fortunatamente non chiese altre spiegazioni. Lo ringraziai mentalmente prima di pensare a quante volte avevo sognato di poter definire come mia una casa, ma mai mi sarei immaginata che la prima volta sarebbe stata così... strana.

Ancora non potevo credere al motivo per cui mi trovavo in quell'appartamento con un quasi sconosciuto. Be', quasi perché...

«Cecilia,» mi richiamò lui, interrompendo il flusso dei miei pensieri. «Sono, ehm, felice che voi siate qui con me.» Un velo di dolcezza accompagnava quelle parole dette con imbarazzo.

Accennai un sorriso amaro e portai istintivamente una mano ad accarezzarmi il ventre. Di sicuro avrei dovuto rispondergli che anche io lo ero, ma le parole mi morirono in gola. Non che non avessi apprezzato il suo gesto, ma era tutto così complicato.

Si guardò intorno un altro paio di volte, prima di schiarirsi la gola. «Mi sembra poco carino da dire, ma vorrei essere sincero sin da subito,» iniziò, attirando la mia attenzione e incuriosendomi.

«Dimmi.»

Spostai una ciocca di capelli dietro l'orecchio destro, aspettando che continuasse.

«Ecco, io spero non ci siano problemi se in futuro dovessi portare delle ragazze qui,» spiegò e io, dopo un attimo in cui rimasi spiazzata dalle sue parole, annuii amareggiata. In fondo era un ragazzo davvero molto bello e noi non ci frequentavamo nemmeno, quindi cosa avrei potuto pretendere?

«Non avresti nemmeno dovuto chiederlo: questa è casa tua.»

«Nostra, Cecilia,» mi corresse velocemente.

Sospirai e lui si voltò verso la porta per uscire, ma lo fermai parlando.

«Scusa, potresti ripetermi come ti chiami?» balbettai, imbarazzata dal fatto che lui mi avesse chiamata per nome almeno un paio di volte mentre io non ricordavo il suo.

«Zayn.» Sorrise. «Zayn Malik,» mi ricordò il suo nome completo, forse considerando il fatto che nel giro di nove mesi mi sarebbe servito sapere che cognome avrebbe avuto nostro figlio.

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