Prologo

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L'alba aveva avuto inizio, ma i neonati raggi di luce non erano ancora in grado di mostrare chiaramente il cammino, né di permettere l'orientamento ad una qualunque creatura incapace di vedere nella notte.

Ma una figura si muoveva al lato della strada, in modo aggraziato e veloce. Dai suoi fluidi movimenti non traspariva esitazione.

La luce le bastava.

Non perché riuscisse a distinguere gli oggetti attraverso il sottile velo dell'oscurità, ma semplicemente perché sapeva che cosa la circondava. Aveva studiato a lungo il luogo, ed era perfettamente consapevole di tutto quello che aveva intorno.
Era consapevole degli edifici, dei pochi lampioni che si susseguivano ai lati della strada, dei punti in cui il marciapiede si interrompeva per consentire alle auto di svoltare nelle altre vie, per procedere nell'intricato sistema stradale di San Francisco.

I freschi venti le solleticavano il viso, simili ad aghi, eppure la sensazione di gelo non si espandeva agli strati più interni della sua pelle, come se gli aghi vi fossero appoggiati dalla parte della cruna.

Senza voltarsi indietro, continuò ad avanzare, lo sguardo dritto davanti a sé, attento, pronto a non lasciarsi sfuggire nulla. Superò negozi e case, i cui vetri e finestre cominciavano a riflettere la luce, e si fermò davanti ad un edificio con la facciata di cemento.

Si inginocchiò di fronte al portone di legno color ebano, sul quale brillavano due lettere dell'alfabeto greco, alfa e omega, dorate.

Il bambino avvolto tra le coperte, che fino a poco prima sognava tra le sue braccia, emise un gemito, quasi come se conoscesse i seguenti avvenimenti.

La mano della donna corse immediatamente alla testa del piccolo, la accarezzò con gentilezza, e i suoi lineamenti si distesero.

Poi, con studiata lentezza, tirò fuori dalla giacca una busta, bianca e perfetta, e la posò a terra, davanti alla porta.
«Come presentazione» disse, senza che alcuna emozione scaturisse dalla sua voce.

Osservò l'anello, assicurato al collo del bambino da una sottile catena, e cominciò a girarselo fra le dita, assorta nei suoi profondi pensieri.
«Come sicurezza» continuò, rimettendo al proprio posto l'oggetto circolare. Vi era apprensione nella sua voce.

Infine si chinò e poggiò la sua fronte su quella del piccolo, mantenendo il contatto per lungo tempo.
Quando si staccò, i suoi occhi erano quasi velati di tristezza.
«Come speranza.»
E questa volta dalle sue parole zampillava dolcezza.

Con delicatezza e attenzione degne di un chirurgo, depose a terra il bambino, poco distante dalla busta.
La donna si rialzò e si mosse per andarsene, ma ebbe il lampo di un ripensamento, e si accovacciò nuovamente.
«Buona fortuna, piccolo» sussurrò, le labbra piegate nel primo sorriso di quella notte.

Dopodiché, suonò il campanello dell'orfanotrofio.

Era arrivato il giorno, portando con sé luce dorata.

La donna abbandonò il luogo.

•••

Guidata dal sole che filtrava dalle vetrate colorate, la suora avanzava rapidamente, cercando di frenare il flusso di pensieri pessimistici che imperversava nella sua mente.
Il suono del campanello, così simile ad una lugubre campana, l'aveva destata dal sonno pochi minuti prima.

Non era la prima volta che succedeva, ma dentro di sé continuava a sperare, e a pregare, che non fosse come al solito, che la scena fuori dal portone alle 6 del mattino le si presentasse diversa da ciò che immaginava.

Le pareti bianche del corridoio, ornate di quadri e immagini di santi, la accompagnarono fino all'ingresso.
La donna si arrestò e gettò la testa all'indietro, gli occhi color nocciola, benevoli, in direzione del crocefisso appeso sopra la porta, a proteggerla da ingressi nefasti.
La suora chiuse gli occhi e giunse le mani, mormorando una preghiera, pregando di sbagliarsi.

Non sapeva che la preghiera non le sarebbe servita a nulla.

Portò una mano al collo e la strinse attorno alla piccola croce che non abbandonava mai, poi cominciò ad armeggiare con il portone, che dopo qualche secondo la assecondò, aprendosi.

Esattamente come aveva immaginato.

La donna sospirò, con una sfumatura di tristezza sul volto stanco.
Seguendo un copione recitato ormai fin troppe volte, si inginocchiò e prese in braccio il bambino, stringendo tra le dita una busta bianca raccolta da terra.

La busta non aveva alcun sigillo, era spoglia e bianca come la neve. Si aprì facilmente, come se desiderasse essere letta.
Una volta estratto il foglio di carta - anch'esso bianco - gli occhi della suora cominciarono a scivolare sul testo.

Affido alle vostre cure questo bambino, nella speranza che possiate proteggerlo e amarlo per tutto il tempo necessario, fino a quando non arriverà per lui il momento.
Insegnategli che le cose non sono sempre come sembrano, insegnategli a guardare oltre le apparenze, da altre prospettive, così che possa imparare a vivere e a sopravvivere.
Il suo nome è Gabriel, il nome di un angelo, e ha due anni. È ancora innocente, ma i suoi genitori gli sono stati strappati via.
L'anello è importante, ricordatelo. È fondamentale che lo tenga sempre.
Lode a chi sta in alto.

La grafia era ordinata e precisa, ma dava un senso di velocità costante, e faceva pensare ad uno scrittore di fretta.

La suora scosse la testa.
Un altro che delira e abbandona il proprio figlio, pensò, poi recitò una preghiera per l'anima della persona che aveva abbandonato il bambino e un'altra per Gabriel stesso.

Voltò il capo verso quello del piccolo che aveva in braccio. Per un attimo, trattenne il fiato.

Due occhi spalancati, tanto verdi da sembrare irreali, la fissavano con la curiosità e la tranquillità tipica dei bambini.

Una gelida brezza di vento investì la suora, che rabbrividì fin dentro le ossa.
Le sue labbra si sciolsero in un sorriso caloroso, il cui contrasto con le lingue di vento poteva essere paragonato a quello tra bianco e nero.
«Benvenuto, Gabriel.»

Con ancora in braccio il bambino, la donna si rialzò e rientrò nell'orfanotrofio, passando sotto al crocefisso.

Cronache di un MezzosangueDove le storie prendono vita. Scoprilo ora