Capitolo due - Chiamata persa

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Capitolo due - Chiamata persa


«Lasciami!» Gli ordinò Emma, masticando le lettere in una risata trattenuta. Miles continuava a tenerla stretta a sé, con l'addome che accoglieva la sua schiena ed il viso che si confondeva sulla sua pelle e tra i suoi capelli ormai disordinati.

«Sta' ferma» ribatté lui, sorridendo in un bacio fuggevole mentre cercava di bloccarla anche con le gambe. Il divano sul quale stavano lottando non era abbastanza spazioso per poter soddisfare le loro momentanee esigenze, quindi rischiavano di cadere a terra con un movimento troppo brusco o avventato.

«Me la sto facendo addosso!» Protestò Emma, inarcando il corpo per sfuggire alla sua presa ferrea ma scherzosa. L'aveva sempre divertita il suo lato dispettoso ed infantile, nonostante spesso la facesse dannare nei momenti meno opportuni: come, per esempio, quando doveva correre urgentemente in bagno e lui si dilettava nel torturarla.

«Non vorrai lavare il divano...» la prese in giro, mordendole giocosamente il lobo dell'orecchio destro.

«Laverò te, se non mi lasci andare» lo ammonì lei, cercando di liberarsi delle sue mani giunte e solide.

A quelle parole, Miles dissolse la sua stretta all'improvviso e per poco non le fece perdere l'equilibrio. «Che schifo che fai» esclamò, accompagnato da quella risata bassa che l'aveva conquistata la prima volta.

Emma gli fece un gestaccio sorridendo e corse subito verso il bagno, divertita dalla loro spensieratezza, ma preoccupata per la propria vescica.

Quando ebbe soddisfatto i suoi bisogni, udì il proprio cellulare squillare mentre stava tornando in salotto per prendersi una piccola rivincita su Miles. Entrò nella stanza del ragazzo e, oltre al letto disfatto, trovò il telefono sul comodino: sullo schermo rigato lampeggiava un numero che non ricordava né riconosceva.

«Pronto?» Rispose, incastrando una mano tra i propri capelli e piegandosi a raccogliere un calzino da terra.

«Ah, lo sapevo!» Esclamò la voce dall'altra parte della cornetta, suggerendo una lieve risata. Ed erano passati sei anni, è vero, ma Emma sapeva ancora riconoscere il timbro di Harry senza particolari sforzi. Allontanò per un istante il cellulare, in modo da poter sbirciare ancora una volta il numero sullo schermo e per confermare che fosse a lei sconosciuto.

Inarcò le sopracciglia, stupita. «Harry?» Domandò, nonostante sapesse già con chi stesse parlando.

«Volevo accertarmi che avessi ancora lo stesso numero» le spiegò velocemente, come se fosse stata una cosa normale, all'ordine del giorno. C'era da sperare che si rendesse conto di quanto invece la sua curiosità fosse fuori luogo ed inaspettata, imprevedibile e sospetta.

«Io sì» commentò lei dopo un paio di secondi, con un certo fastidio nell'intonazione. Ricordava sin troppo bene quando, circa due mesi dopo la sua partenza da Bradford, aveva provato a chiamarlo ed il numero era risultato inesistente. Aveva messo da parte l'orgoglio e la paura, la nostalgia ed il dolore insistente, solo per sentire di nuovo la sua voce, ma aveva scoperto di essere semplicemente in ritardo, perché Harry aveva cambiato scheda telefonica senza preoccuparsi di lei, dell'impossibilità di trovarlo che le avrebbe imposto.

Quello che la stupiva, però, era che avesse conservato il suo numero.

«Ti va di uscire per un caffè?» Le chiese senza indugi, quasi non avesse colto quel rimprovero implicito: più probabilmente, comunque, aveva deciso di ignorarlo.

Dopo quattro giorni dal loro incontro, la sua richiesta le consigliò che si fosse trattenuto in città oltre il tempo necessario per una semplice visita, soprattutto perché non sapeva quando effettivamente fosse arrivato. Cosa avrebbe dovuto rispondere? Cosa avrebbe dovuto scegliere tra l'istinto e la ragione, che non avevano ancora deciso che posizione prendere?

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