QUATTORDICI

440 20 0
                                    



Quel pomeriggio chiamai con Skype mio padre.

Era in missione in Afghanistan. Quando i suoi occhi verdi si scagliarono nella webcam, le lacrime apparvero ai miei occhi.

«Ciao splendore! Come stai?», mi chiese gentile. Indossava una maglietta verde e dei pantaloni mimetici.

Mi strini nelle spalle. «Così.»

«La mamma come sta? Vi trovate bene nella nuova casa? La scuola com'è?», volle sapere curioso.

«La mamma sta bene. Matteo è davvero gentile con noi. La casa è stupenda papà! Ho la cabina armadio!», esclamai e lui rise davanti all'immagine del mobile alle mie spalle.

Parlammo del più e del meno. Dei miei nuovi fratelli, della scuola. Gli raccontai delle insegnanti che avevo conosciuto e dei ragazzi strampalati che giravano per i corridoi durante la ricreazione. Mio padre sorrideva contento, sembrava sereno nel sentirmi così vivace. Non sapeva che in parte stavo fingendo.

Mi schiarii la voce, decisa a dar sfogo ai miei pensieri. «Papà, davvero non ti da fastidio che io mi trovi qui?», chiesi sperando che mi dicesse di sì.

Scosse energicamente la testa. «Tesoro, no. Non sono né arrabbiato né infastidito. Finalmente avrai qualcuno che può starti vicino. Io ci sarò sempre per te e lo sai, ma sono felice che tu abbia vicino a te una figura maschile. Per qualunque cosa però conta su di me.»

Finsi che quella dichiarazione non mi avesse infastidita. Sorrisi mostrandomi serena, anche se dentro di me sentivo lo stomaco stringersi in una morsa dolorante.

Salutai mio padre e misi fine alla chiamata.

In classe non ci avevano ancora assegnato compiti da fare, così, indecisa sul da farsi, scesi al piano di sotto. Erano le tre di pomeriggio. Mia madre era a scuola per il turno pomeridiano, mentre Matteo era allo studio legale in centro Milano. Cesare era uscito appena tornato da scuola, mentre Alessandro e Filippo erano agli allenamenti di pallavolo.

Mi sentivo estremamente sola.

Decisi di uscire in giardino e, appena misi piede fuori dalla porta, il nostro cane mi raggiunse abbaiando forte. Lì per lì mi spaventai, poi avvicinandomi di più gli permisi di annusarmi una mano. In men che non si dica iniziò a leccarmi le dita, lasciandomi la bava sulla pelle. Mi sedetti sui gradini di casa mentre continuava a leccarmi senza pietà.

«Oddio, che schifo!», risi di gusto mentre mi leccava la guancia.

Quando la sua lingua colpì una lente dei miei occhiali, non riuscii più a vedere nulla. Li tolsi e me li pulii sul tessuto della maglietta.

Quando li rindossai mi bloccai. Cesare era in piedi sul cancello e mi osservava con aria... confusa.

Mi schiarii la voce, alzandomi. «Scusami, stavo facendo amicizia con il tuo cane.»

Chiuse il cancello e il Golden retriver corse verso di lui, iniziandolo a leccare. «Non ti devi scusare. E poi è una femmina, si chiama Duchessa.»

Sbarrai gli occhi. «Oh, come la mamma gatto degli Aristogatti?», domandai sorridente.

Nel sentire pronunciare la parola "Gatto", Duchessa iniziò ad abbaiare vistosamente facendoci sorridere entrambi.

Rimasi senza fiato nel vedere lo stupendo sorriso sul volto di Cesare. La fossetta che si era creata affianco al labbro mi spiazzò. Sbattei più volte gli occhi per cercare di ritrovare la lucidità. Solo in quel momento mi resi conto che indossava una canotta fradicia e dei pantaloncini della tuta lunghi fino al ginocchio.

«Che diavolo hai fatto per sudare in questo modo? Una maratona?», lo schernii e lui tornò serio. «Scusami, non volevo metterti in imbarazzo», precisai spostando lo sguardo al suolo. Duchessa continuava a fissarci con la lingua a penzoloni. Non era la sola a non comprendere la situazione. Di certo eravamo in due.

Cesare si schiarì la voce, la quale apparve roca e sensuale alle mie orecchie. «Vado di sopra a fare una doccia, poi la porto fuori.»

Mi diede le spalle, pronto a varcare la soglia di casa.

Gli fissai le spalle muscolose ed ampie immaginandomi che sensazione potessero regalarmi nel sentirmi stringere da esse.

«Se vuoi posso portarla fuori io», proposi.

Cesare si fermò nell'ingresso, non si voltò. «No, lo faccio io», disse e poi, una volta sulle scale si girò a fissarmi. «Però puoi sempre accompagnarmi se vuoi.»

Rimasi per un attimo senza parole da quella sua rivelazione.

Non sapevo che dire. «Ecco... io...»

Cesare scosse la testa, nervoso. «Sai che ti dico, dimentica ciò che ti ho chiesto», borbottò brusco e, dopo essersi voltato dalla parte opposta, salì le scale, lasciandomi sola.

Quando ci raggiunse venti minuti più tardi, Cesare indossava una tuta grigia e una tshirt nera, in tinta coi suoi capelli i quali erano bagnati e spettinati. Aveva le mani in tasca e mi osservava appoggiato al telaio della porta blindata mentre io tenevo sospeso a mezz'aria il frisbee che Duchessa mi aveva appena riportato.

Lei scodinzolava felice, mentre saltellava da una parte all'altra del giardino senza perdere di vista il suo giocattolo, il quale era intrappolato tra le mie dita fragili. Cercai di darmi di nuovo un contegno e lanciai il frisbee lontano. Duchessa corse in direzione del gioco e io mi voltai verso Cesare, il quale teneva stretto tra le mani il guinzaglio e la pettorina.

Abbassai lo sguardo sui miei vestiti e notai che la maglietta grigia che indossavo da quella mattina era sporca di terra, probabilmente a causa delle zampate di Duchessa. Mi avvicinai all'ingresso, ma Cesare occupò l'entrata impedendomi di andare a cambiarmi.

Sollevai un sopracciglio, con sguardo duro. «Ti dispiace levarti di torno? Sei ingombrante e dovrei passare», dissi con tono glaciale. Il fatto che prima si fosse rimangiato l'invito, mi aveva fatto arrabbiare come non mai.

Cesare scosse la testa e io tentai, invano, di sorpassarlo.

Sbuffai irritata. «Che cosa cavolo ti prende adesso? Non posso nemmeno entrare in casa mia?», esclamai infuriata.

Cesare strinse gli occhi in due fessure. «Casa tua? L'ultima volta che ho controllato sul citofono c'era scritto Rossi e tu non sei una Rossi o mi sbaglio?», mi chiese con tono disgustato.

Ma che pezzo di...

Strinsi gli occhi forte. Volevo solo cancellarlo dalla mia mente, cancellare tutto e tutti. Quella casa, quella scuola, quella nuova famiglia. Tutti, volevo che sparissero per sempre. Trovai in un angolo della mia mente l'immagine vivida del lago e immediatamente mi rilassai.

Aprii gli occhi, sorridendogli. «Hai ragione, non sono una Rossi, non sarò mai una Rossi. Ma faccio parte di questa famiglia, che ti piaccia o no. Puoi ignorarmi se vuoi, oppure criticarmi non m'importa. Per quanto mi riguarda puoi perfino continuare a fare lo stronzo come stai facendo ora. Ma ti dovrai abituare alla mia presenza, questo problema te lo dovrai risolvere da solo», lo informai.

Feci un passo all'interno della casa e andai a sbattere contro il suo petto muscoloso. Una marea di sensazioni contrastanti si fecero largo in me. I suoi occhi penetranti mi stavano fissando e mi sentii le gambe molli. «Cosa vuoi da me Cesare?», sussurrai.

Posai le mani sui suoi avambracci, spostandolo da me. Strinse forte i denti prima di rispondere. Il suo sguardo incrociò quello di Duchessa, la quale ci stava aspettando sulla soglia, con il frisbee arancione in bocca.

«Muoviti a cambiarti, se non sei qui tra dieci minuti ce ne andiamo senza di te», mi avvertì raggiungendo il cane.

Sorrisi mentre salivo di corsa le scale. Cesare aveva deciso di portarmi con lui e Duchessa a fare una passeggiata. Inevitabilmente tenni il punteggio a mente: Camilla 1, Cesare 0.

Forse non era molto, ma per il nostro rapporto quello era un grande passo.


VIENI CON ME (1-The Rossi's Series)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora