Giorno 19: diciannove

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Fin dal principio, la mia vita è stata caratterizzata dal numero diciannove.
Sono nato il 19 settembre 1919, intorno alle 19, e ho vissuto tutta la mia vita nella stessa casa, al numero 19 di via Roma, insieme ai miei genitori e alle mie sorelle Maria e Grazia.
All'età di sei anni conobbi Davide: la cosa più vicina a un fratello che avessi mai avuto, almeno per i primi anni della nostra amicizia, ciò che di più caro avevo nel cuore. Era estate, il 19 giugno, e stavo giocando in piazza mentre Grazia, che di anni ne aveva dodici, controllava che non mi facessi male e che non andassi troppo lontano. Non ricordo esattamente cosa avessi fatto, ma a un certo punto Grazia si mise a urlarmi contro rincorrendomi, minacciando di darmi uno scapaccione. Mentre sfuggivo da lei, il viso volto all'indietro, impattai su un altro bambino, Davide: ruzzolammo a terra, le gambe e le braccia aggrovigliate, e scoppiammo a ridere entrambi. Da quel momento, fummo una cosa sola, uno l'ombra dell'altro, quasi indivisibili.
Solo una cosa rischiò di dividere per sempre ciò che il fato aveva unito, o meglio, una persona: Anna. La incontrai il 19 febbraio 1930, nell'inverno dei miei dieci anni. Avevo appena vinto una gara di atletica organizzata dall'Opera Nazionale Balilla; lei era in mezzo al pubblico, i capelli castani raccolti in due trecce, la divisa da piccola italiana sfoggiata con fierezza. Quella per lei non fu che una cotta, nata dal "complimenti!" che lei mi disse appena finita la gara. Incontrai Anna poche altre volte, ma tanto bastò per offendere Davide: si sentiva messo da parte, diceva, per colpa di "una gonnella nera"; pensai che fosse geloso perché Anna piaceva anche a lui. Un po' perché faceva star male Davide, un po' perché non era null'altro che un'infatuazione temporanea, i sentimenti per Anna svanirono in fretta, e non ne parlammo più.
Anni dopo capii cosa avesse provocato davvero quella gelosia in Davide: amore, sì, ma per me. Era il dicembre del 1937 e io e Davide eravamo usciti da poco dal cinema, dove avevamo appena visto Scipione l'Africano. L'aria era fredda e prometteva neve, ma non volevamo andare a casa. La città era desolata, nessuno osava metter piede fuori con un tempo simile: era meglio così, pensavamo, l'avevamo tutta per noi. Ci sedemmo su un muretto, parlando del più e del meno. Non saprei ricordare come arrivammo a quel punto, so solo che trovai le sue labbra sulle mie, morbide e delicate, e capii che era tutto ciò che volevo. Non avevo mai realizzato, fino ad allora, di poter provare gli stessi sentimenti sia per i ragazzi che per le ragazze. Era spaventoso, il clima d'odio di cui quei giorni erano intrisi era enorme; tuttavia mi sentivo forte, coraggioso. Non dovevo affrontare da solo le avversità che mi si sarebbero potute parare davanti: Davide era con me.
Quella sera fu la prima di una lunga serie, fatta di baci rubati negli angoli più bui, di dita intrecciate per pochi istanti quando pensavamo di essere al sicuro, di sguardi che comunicavano più di mille parole. Ogni momento che passavamo insieme era speciale, creava dipendenza e noi, come due drogati, ne volevamo di più, sempre di più; i fugaci incontri delle nostre labbra non erano abbastanza: volevamo sentirci liberi, liberi di amarci senza doverci nascondere, senza che gli altri ci giudicassero sbagliati. Questo impetuoso desiderio ci rese incauti: avevamo un tale bisogno di toccarci, di sapere che eravamo lì, insieme, che spesso inavvertitamente le nostre dita si incrociavano anche quando non eravamo soli. Le voci cominciavano a girare, i primi insulti arrivavano. Le nostre famiglie smentivano ogni accusa, non riuscivano a credere che i loro figli fossero qualcosa di diverso dai perfetti giovani che avevano cresciuto. Se solo avessero aperto gli occhi avrebbero senz'altro visto la verità, ma a volte la finzione è così confortevole che abbandonarla è un'impresa troppo ardua.
Per evitare ulteriori accuse, ci fu proibito di vederci. Noi tuttavia continuammo i nostri incontri clandestini, sgattaiolando fuori casa nel cuore della notte. Una tiepida sera di luglio decidemmo di andare in campagna, isolandoci dal resto del mondo. Fu un viaggio breve, appena mezz'oretta a piedi. Sdraiati nell'erba, le dita unite, osservavamo il cielo scuro sopra di noi, una coperta sotto cui nascondere il nostro amore. Ogni tanto guardavo Davide, i riccioli neri sparsi attorno a lui, il viso puntato in su, verso le stelle luminose. Era bellissimo, pensai, ma non osai dirlo: era uno spettacolo da contemplare in silenzio. Un paio di volte mi colse mentre lo fissavo estatico, e entrambe arrossì; era così carino che, se la prima volta riuscii a trattenermi, la seconda non potei fare a meno di sporgermi verso di lui e baciare quelle labbra perfette.
Ci addormentammo sotto la pallida luce della luna, abbracciati; uno degli ultimi suoni che riuscii a udire, prima di cedere a Morfeo, fu il battito del suo cuore. "Ti amo", sussurrai dischiudendo appena le palpebre per bearmi ancora della sua vista. "Ti amo anch'io" rispose lui, senza aprire gli occhi, ma stringendomi più forte a sé.
Fu in quella posizione che la mattina dopo ci svegliammo, sotto lo sguardo disgustato di un contadino che ci osservava da poco lontano. Se solo l'avessimo scorto...
Appena aprii gli occhi fui pervaso dallo stupore: temevo fosse un sogno, un bellissimo, stupendo, fantastico sogno. Quando anche luì sollevò le palpebre, mostrando le iridi verdi, sorrisi genuinamente, mentre dentro al mio stomaco una marea di farfalle volava senza posa. Lui si sporse verso di me per baciarmi, un gesto tanto naturale quanto straordinario: ma quel rapido, intenso, meraviglioso incontro di labbra fu anche la nostra rovina.
Era il 19 luglio, nella prima mattinata, quando il mio cuore si fermò, insieme a quello di Davide. L'odio per tutto ciò che era "diverso", che negli anni era andato aumentando, aveva riempito il contadino che ci fissava; quel bacio non era stato che la goccia che aveva fatto traboccare il vaso: borbottando una sequela di insulti, imbracciò il fucile e sparò due colpi, due soli, ma precisi.
"Due sporchi sodomiti in meno", disse a mezza voce il contadino. "È tempo di far pulizia."
Mentre l'anziano rientrava nella propria casa, a una distanza relativamente breve dai nostri corpi, io e Davide, guardandoci negli occhi, esalammo l'ultimo respiro; i nostri cuori, all'unisono, si fermarono.
Fummo inseparabili in vita e inseparabili siamo adesso, uniti da un legame tanto forte che la morte non potè, né potrà mai, spezzare.

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