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L'autista mi accompagnò all'aeroporto, aiutandomi con le valigie che imbarcammo. Poi mi scortò verso la sala d'attesa per i "vip", facendomi superare i controlli velocemente, e andandosene, dandomi il suo saluto con un inchino. I giapponesi erano tutti così cordiali e rispettosi anche se, devo ammettere, che l'inchino all'inizio mi aveva imbarazzato. Ma poi avevo capito che per loro era un'usanza normale, anzi era più offensivo non accettarlo, e così anch'io avevo iniziato a farlo.

Mi sedetti in uno di quei divani dall'aria molto chic e sicuramente anche costosa, guardandomi intorno: la sala era enorme, con una trentina di divanetti e poltrone tutte del medesimo blu notte e tutte in velluto; le pareti avevano una delicata carta da parati con delle rifiniture in oro e dei quadri appesi con una simmetria perfetta rappresentavano dei disegni astratti, i cui colori richiamavano quelli dell'intera sala. Dal soffitto scendevano tre eleganti lampadari, sempre in oro, che illuminavano la sala, e i pavimenti, in marmo bianco, riflettevano la luce creando dei giochi magnifici. Le tende aperte mostravano la città, ormai il sole era calato e tutta Tokyo era illuminata dalle luci, rendendo lo spettacolo mozzafiato.

Non avevo ancora avuto il coraggio di guardare il mio biglietto, non volevo sapere dove avrei dovuto passare i prossimi due/tre anni della mia vita ma il tempo stava per scadere: l'autista mi aveva riferito che il mio volo sarebbe partito alle 19.35 ed erano le 18.50.

Mi feci coraggio, sfilandomi dalla tasca del giubbino il biglietto aereo e leggendo la meta: Vienna.

Avevo sempre desiderato andarci... era una città magnifica, con quei palazzi ricchi di storia...

Chissà però se sarei riuscita ad integrarmi: avrei dovuto terminare l'ultimo anno di liceo, poi chissà. Non sapevo davvero cosa aspettarmi, sicuramente la gente non sarebbe stata come quella di Tokyo, ma speravo che non fosse neanche come quella di Milano... in quel caso penso che me ne sarei tornata indietro senza battere ciglia. Il mio telefono vibrò dalla tasca dei pantaloni così lo afferrai: era un messaggio di Anita.

* Buon viaggio, amica mia. Ti auguro davvero il meglio e spero tanto di non perdere i rapporti con te... già ci manchi, sia a me che a Martha. Quest'ultimo anno non sarà lo stesso senza di te ti vogliamo bene,

Le tue amiche *

Sorrisi, mentre una lacrima silenziosa scendeva sulla mia guancia. Stavo per rispondere quando una voce al megafono catturò la mia attenzione

"Si pregano i signori passeggeri del volo AY 0968, diretto a Vienna, di recarsi al Gate 24. Stiamo per iniziare l'imbarco"

Lo stesso messaggio venne ripetuto in almeno cinque lingue diverse, alcune poco riconoscibili, altre invece un po' più familiari. In questi due anni avevo imparato poco e niente del giapponese era una lingua estremamente complicata e infatti di quelle semplici parole ero riuscita a captarne solo qualcuna. Misi via il telefono, decidendo che avrei risposto dopo, non appena salita sull'aereo. Mi aspettavano quasi due giorni di volo.

Uscii dalla sala vip, trascinando il borsone di Louis Vuitton, regalatomi da mio padre, con le cose per il viaggio e mi iniziai a dirigere verso il gate. L'aeroporto era davvero enorme, con gente che correva a destra e a manca, eppure io ci stavo bene lì, immersa da tutte quelle culture così diverse. Ho sempre amato gli aeroporti, così pieni di gente che va e viene, persone da tutto il mondo, con le loro abitudini e con le loro usanze.

Mi incamminai, cercando di non farmi trascinare dal flusso di gente e cercando il gate. Dopo dieci minuti finalmente lo trovai così mi misi in coda, aspettando che le hostess iniziassero a fare i controlli necessari per farci accedere all'aereo.

Una persona dietro di me iniziò a chiacchiere animatamente al telefono, parlando in italiano. Forse pensava che così facendo nessuno lo avrebbe capito, eppure la sfiga volle che quella fosse la mia lingua madre, anche se era piuttosto arrugginita. I due anni a Milano e tutte le lezioni di mia mamma mi avevano aiutato, ormai la padroneggiavo abbastanza bene, anche se non la parlavo da anni. Con mio padre parlavo sempre in inglese, lui si era rifiutato di parlare nella nostra lingua di origine dopo la morte della mamma, anche a Milano.

Love is a strange thingDove le storie prendono vita. Scoprilo ora