Prologo

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Era il mio ultimo giorno di scuola, l'ultimo che avrei affrontato in questa città.

Erano passati solo due anni ma avevo incontrato tantissime persone disponibili e gentili erano esattamente come me, sempre solari e disposte ad aiutare. La gente era così diversa qui a Tokyo nulla a che vedere con la freddezza dell'Italia. Anche se Milano doveva essere casa mia, io non l'avevo mai sentita tale, forse proprio perché a causa del lavoro di mio padre non ci eravamo mai fermati per più di tre anni nello stesso posto. Dopo la mia nascita avevamo girato un po' per il mondo: praticamente nei miei diciassette anni di vita avevo vissuto nella maggior parte dei paesi dell'Europa e in molti altri al di fuori di questa.

Mio padre era un ambasciatore e per questo io, lui e mia madre eravamo costretti a girare il mondo. Quando avevo sei anni mia madre però si ammalò gravemente: le venne diagnosticato il morbo di Parkinson, lei aveva solo trent'anni e il suo destino era stato già scritto. Partimmo verso l'America, andando in una delle cliniche migliori specializzate in questa malattia, presente in pazienti giovani. Restammo a Los Angeles per due anni, stando vicino a mia madre che nel frattempo peggiorava in maniera incontrollabile. L'ultimo anno fu attaccata da una brutta polmonite che quasi la uccise, così quando ormai la situazione era incontrollabile, fu spostata in una casa di riposo per malati terminali in campagna, lontana da tutti i rumori della città, lontana da tutta la vitalità che stava scomparendo da lei. I medici ci avevano detto che non le restavano più di due anni e che aria pulita e silenzio le avrebbero reso meno difficili gli ultimi momenti, così restammo lì con lei, in attesa che la morte se la portasse via.

Dell'ultimo periodo ricordo soprattutto il suo sguardo vuoto, spento, quando vedeva me o mio padre: non ci riconosceva, non sapeva chi eravamo. I medici ci avevano avvertito di questa possibilità, la sua memoria non sarebbe più stata la stessa. Così ci fingevamo volontari, medici o infermieri. Non volevamo riempirle la testa di informazioni e farla stancare ulteriormente.

Poi, dopo quasi un anno che era in quella casa, lei se ne andò. Si spense di colpo, andandosene nel sonno. Semplicemente il suo cuore smise di battere, i dottori dissero che non aveva sofferto, che Dio era stato gentile a darle una morte così veloce e silenziosa... ma io non capivo, non capivo perché a soli nove anni Dio avesse voluto punirmi e portarmi via mia madre.

Riuscivo ancora a ricordare la sua stanza, una finestra coperta da una tenda verde menta tenuta sempre aperta, così che mia madre dal suo lettino in legno potesse sempre vedere il cielo azzurro, le nuvole, le distese di verde e soprattutto il sole. Lei amava sentire il calore dei raggi sulla sua pelle, adorava sedersi sulla sedia a dondolo di fianco alla finestra e stava lì ore, con gli occhi chiusi e beandosi di quel calore. Anche se non si reggeva in piedi non voleva che le fosse portato via quell'unica fonte di piacere. Io e mio padre stavamo sullo stipite della porta, ad osservare la sua pelle bianca essere illuminata, i suoi capelli biondi che con i raggi del sole sembravano dorati e le sue labbra pallide socchiuse. Era bellissima, la donna più bella che avessi mai visto.

Dopo la sua morte mio padre volle ritornare a casa, in Italia. Era così stanco di viaggiare e aveva bisogno di riprendersi, lei era l'amore della sua vita. Stavano insieme da quando avevano solo dodici anni, era stato amore a prima vista. Mio padre mi raccontava sempre del loro primo incontro: era il suo primo giorno di scuola alle medie e non conosceva nessuno, si era seduto in un banchetto in fondo alla classe mentre tutti gli altri bambini iniziavano a parlare tra loro. Dopo poco una bambina lentigginosa si avvicinò a lui, sorridendogli. Lui rimase estasiato dalla sua bellezza: i capelli dorati raccolti in due treccine, il suo sorriso, le sue lentiggini.

Gli si presentò, porgendogli una caramella, e da quel momento divennero inseparabili. Dove c'era Elia vi era anche Cristina e presto si resero conto che il loro non era solo un rapporto di amicizia. Si erano sposati a ventidue anni e due anni dopo arrivai io, la gioia dei loro occhi.

Non avevo molti ricordi felici di quei due anni a Milano, anzi, non ne avevo nessuno. Avevo solo nove anni e avevo appena perso mia madre, conoscevo poco la lingua, e quel poco che sapevo era grazie a lei che si ostinava a parlarmi in italiano, dicendo di non voler farmi perdere le mie origini, e in più mio padre era sempre rinchiuso all'ambasciata: non avevo nessuno. A scuola non riuscii mai ad integrarmi con i miei compagni, la gente mirava sempre ad essere migliore in tutto e, anche se solo bambini, erano tutti falsi e menefreghisti. Pregai mio padre di traferirci di nuovo e di ritornare magari in Germania, o in qualsiasi altro posto, e finalmente, dopo due anni tremendi, fui accontentata. Andammo in Svizzera dove restammo per un anno, poi andammo in altri continenti fino a due anni fa, quando ci trasferimmo a Tokyo.

Adorai il Giappone fin da subito per la sua cultura, la sua organizzazione, le sue persone. A scuola non ebbi nessun problema ad integrarmi, anche perché mi ero inscritta in una scuola internazionale, dove ebbi l'occasione di incontrare diverse persone dalle varie culture e dai vari paesi, molti dei quali avevo visitato. Ma anche questi due anni passarono in fretta, mio padre aveva deciso che non appena avessi terminato il mio penultimo anno ci saremmo trasferiti, di nuovo. E oggi era l'ultimo giorno di scuola.

Non avrei detto niente ai miei compagni, odiavo gli addii. Non sarei neanche andata se non fosse stato per Martha, una ragazza greca, e Anita, che veniva dal Vietnam. Le volevo vedere per un'ultima volta, loro erano state le mie uniche vere amiche in tutti quegli anni, e sapevano che quello sarebbe stato il mio ultimo giorno, ma avrebbero mantenuto il segreto.

Il primo giorno di scuola ero così spaesata mi ero persa nei corridoi della scuola non riuscendo a trovare la classe. Mentre correvo, essendo in ritardo, sbattei contro Martha, cadendo entrambe come due pere. Anche lei come me era nuova e aveva il mio stesso corso, così dopo esserci fatte due risate ci alzammo in piedi e finalmente riuscimmo a trovare l'aula. Anita la conoscemmo qualche giorno dopo, in mensa. Era seduta sola, essendo molto timida, così io e Martha ci avvicinammo, sedendoci con lei. Da quel momento eravamo diventato un trio inseparabile.

Quando suonò l'ultima campanella, ci abbracciammo forte, promettendoci di sentirci almeno una volta alla settimana, e speravo davvero che tutto ciò potesse accadere, ma sapevo che la cosa sarebbe durata poco.

Tornai a casa, trattenendo le lacrime. Aprii la porta di casa entrandovi e iniziando a fare un ultimo giro, prima di lasciarla del tutto. Era stato l'unico posto degno di essere chiamato casa, per me questa lo era stato più di qualsiasi altro posto.

I teloni coprivano i mobili rimasti, le finestre erano sbarrate e vi erano cartoni pieni di roba, che avremmo lasciato lì, ovunque. Mio padre era partito qualche giorno prima per cercare una nuova casa in cui stare per i prossimi anni ed io lo avrei raggiunto in seguito, con le ultime valigie. Mi scese una lacrima: questa era davvero la fine di quel poco di felicità che avevo trovato.

Il campanello bussò acuto, riportandomi alla realtà: un uomo sulla quarantina, vestito in giacca e cravatta e con un berretto d'autista si piazzò di fronte a me, inchinandosi come era solito per i giapponesi salutare. Ricambiai anch'io, inchinandomi leggermente e facendolo entrare in casa. Gli porsi le ultime valigie che avevo con me, che lui afferrò con le sue mani coperte da guanti neri in pelle, e ci avviammo verso la limousine posteggiata nel vialetto di casa. Mi girai un'ultima volta, cercando di memorizzare più dettagli possibili dell'ingresso, delle scale che portavano al piano superiore, dei divani poi richiusi la porta alle spalle, sospirando: avrei dovuto ricominciare tutto d'accapo ancora una volta.

Love is a strange thingDove le storie prendono vita. Scoprilo ora