Capitolo 4. Di occhiali.

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[Capitolo 4: Di occhiali.]

Dopo il risveglio traumatico, corse subito a casa, senza neanche salutare la bibliotecaria. Immersa nei colori del tramonto, camminava di fretta, senza dare alcuna attenzione alle signore anziane che le passavano accanto o alle auto che sfrecciavano quando lei attraversava la strada.

Giunse a casa nel giro di pochi minuti, entrò e chiuse la porta con un sonoro colpo. «Cassandra?», disse la madre affacciandosi dalla cucina, notando il volto scosso della figlia. «Cassandra», ripeté fievolmente avvicinandosi a lei, cogliendola in un caloroso abbraccio, uno di quelli materni. La ragazza si lasciò cullare, appoggiando la testa sulla sua spalla, senza emettere alcun rumore. «Piccola mia...», sussurrò successivamente Artemide, lasciandole un bacio sul capo. Cassandra fissava il maglione della madre con occhi vacui, non sapeva se parlare di ciò che le era successo, non sapeva neanche se fosse reale. «Mamma», disse, allora, con la voce rauca, come se un gatto le graffiasse le corde vocali. Artemide le strinse il volto, osservandole gli occhi azzurri, diversi dai suoi color nocciola. «Dimmi, è successo qualcosa? Ti serve qualcosa? Puoi dirmi tutto.».

Artemide non sapeva mai come reagire dinnanzi a queste situazioni, dinnanzi a sua figlia. Si era sempre sentita una madre fallita, impotente. «Io...», iniziò Cassandra. Ma cosa avrebbe potuto dirle? Sua madre non le avrebbe mai creduto, l'avrebbe guardata con pietà, giungendo a conclusioni troppo affrettate e avrebbe cercato nuovamente di sottoporla a qualsiasi tipo di esame, da quello del sangue a quello psicologico. «Niente, scusami, ero solo persa», affermò racchiudendo l'ultima parola in un sospiro. Abbracciò la madre ed indossò un sorriso, poi cercò di passarlo anche a lei, ondulandosi nella stretta, provando a solleticarla e raccontandole una menzogna, della vecchia compagna che aveva ritrovato in biblioteca.

Artemide sembrò crederle, con le labbra rosee incurvate all'insù e la risata acuta che tanto la imbarazzava. «Oggi ti preparo le lasagne», affermò con una certa soddisfazione personale, la figlia annuì e le disse che sarebbe andata nella sua stanza a guardare un film sul computer.
Corse per le scale, diretta verso la sua stanza, puntando al vecchio zaino che vi giaceva, consumato dai cinque anni delle superiori, dentro al quale teneva i pacchetti di sigarette che aveva accumulato con il tempo.
Ne tirò fuori una e la strinse delicatamente tra le sue labbra, poi tirò fuori l'accendino e, senza prestare troppa attenzione, la accese, affacciandosi alla finestra e appoggiando i gomiti sul davanzale.
Rilasciare il fumo fu come espirare il suo peso interiore.

Fuori il sole era già tramontato e la luna illuminava le vie, mentre il cielo era chiaro e tempestato di stelle. Se Cassandra si sforzava anche solo un po', poteva calarsi in un paesaggio idilliaco. Prese il cellulare dalla tasca, tastando una chiave che tirò fuori subito. Era la chiave del seminterrato.

La ragazza rilasciò una risata soffocata, sentendosi ormai incatenata a ciò che aveva vissuto, per cui appoggiò la chiave sul davanzale e mise la musica.

Dunque fu la volta di appoggiare la testa sul davanzale, stampando la forma della gelida chiave sul viso, mentre la sigaretta veniva consumata tra le sue labbra dal fuoco. Nella testa erano ancora impresse le immagini di archi di fiori e grovigli di fumo, nel petto sentiva ancora le emozioni nascondersi. La sua magia, le avevano detto i ragazzi di quel luogo magico. E lei era stata presa dalla paura, ma non era quella dell'essere stata rapita, poiché aveva avuto fiducia nelle loro parole.

C'era un'altra cosa che la spaventava, o, semplicemente, era mera e pura delusione. Ma questo Cassandra non riuscì a capirlo, aveva solo una certezza: il giorno seguente sarebbe tornata lì. Avendo le chiavi sarebbe stato più facile, avrebbe solo dovuto accedere al seminterrato senza farsi notare.

Così consumò la sigaretta, fissò la mezza luna, i cui colori le ricordavano Selene; e lasciò la musica regolarizzarle i battiti del cuore ed i respiri pesanti. «La mia magia», sussurrò, appoggiando la testa sul davanzale, lasciando che i capelli rimanessero sospesi nel vuoto. Fissava le stelle con disinteresse e muoveva le mani, gesticolando forme strane. «Magia», proseguì, parlando fra sé, con le labbra che si screpolavano a causa del freddo.

L'Isola Che Non C'èDove le storie prendono vita. Scoprilo ora