Capitolo 1. Numero 53

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[Capitolo 1: Numero 53.]

Distesa sul prato, fissava il cielo divenuto un groviglio di colori scuri, che sfumavano verso il blu, nero e il viola. Si perdeva in quella estensione così reale e così fantastica, ammirandola e invidiandola, desiderando diventarne parte.

Delle lacrime scivolarono via dai suoi occhi, rigandole le guance e scatenando un forte contrasto tra il loro calore e il gelo della sua pelle. Teneva le labbra serrate in due linee chiuse, violentemente, con forza, costringendole a non emettere alcun rumore. Dunque, si mise a contare le stelle: una, due, tredici, venticinque. Un esercizio che, comunque, non saziò la sua necessità di occupare la mente per non lasciar spazio a pensieri sgradevoli.

Per questo, decise di schiudere lentamente le labbra, rilasciando un sospiro afflitto, rimproverandosi mentalmente per il comportamento che stava avendo e accettò di ascoltare la vera realtà che la circondava. Le sue orecchie vennero investite dal rumore delle cicale, poi quello provocato dalla brezza notturna, successivamente le auto che sfrecciavano per le strade ed infine il chiasso proveniente dalla discoteca in cui, fino a qualche minuto prima, si divertiva con le amiche. Ricordò di come avesse ballato freneticamente, poi bevuto, bevuto e ballato, continuando così fino ad avere un totale black out con conseguente risveglio su quel prato.

Non si ricordò perché fosse in quella condizione, né tanto meno perché fosse costantemente sul punto di piangere, si sentiva estremamente stanca e decise di abbandonarsi al sonno, venendo accolta nel suo dolce tepore, sul quel prato d'erba umida.

Il risveglio fu un trauma, un dolore lancinante le oltrepassò la tempia diradandosi ovunque e facendole strizzare gli occhi. Emise un grugnito, con la mente priva del ricordo di chi l'avesse portata a casa sua, e tentò di alzarsi subito dal letto, per potersi lavare i denti e non sentire più la bocca impastata, ma ci mise troppa foga e si sentì presa da un capogiro, che le fece risalire subito un conato di vomito. Allora il dolore non contò più, doveva correre subito al bagno prima di sporcare le lenzuola e subirsi la solita ramanzina della madre.

Nonostante ebbe successo nella sua impresa, fu preda delle strigliate della madre, che ogni volta le ripeteva quanto fosse irresponsabile, che se avesse continuato di quel passo sarebbe stata buttata fuori di casa e non mancò di sottolinearle che non ne valeva la pena spendere i soldi in cose così effimere. Le parole entravano da un orecchio e uscivano dall'altro, poiché era troppo occupata a divorare la ciotola di cereali, quelli al cioccolato che amava così tanto. «Cassandra? Cassandra mi stai ascoltando?! E che diamine, Cassandra, smettila con questo tuo comportamento!», urlò la madre, abbandonandosi alla rabbia repressa. Sentenziò parole che, nonostante la loro banalità, racchiudevano un qualcosa che non doveva essere detto, perché era un qualcosa che feriva e lo sapevano benissimo entrambe. Calò un silenzio tombale fra le due donne, Cassandra teneva il cucchiaio colmo di cereali sospeso a mezz'aria, mentre la madre era appoggiata al lavandino, con la testa china verso il basso. Artemide, così si chiamava la madre, era in preda ai sensi di colpa ed alla vergogna, sapeva di non dover esternare quella furia mal contenuta, poiché pienamente consapevole che avrebbe ferito la figlia, ma non ci era riuscita e si sentì un genitore fallito. Cassandra si mise in piedi, senza proferire alcuna parola, troppi pensieri le stavano occupando la mente, talmente tanti che non seppe più cosa provava, aveva solo questa sensazione di vuoto a perforarle il petto, ed era così dannatamente pesante, che avvertì, nuovamente, la necessità di vomitare.

Fu in quel momento che interruppe il padre. «Cosa succede qui?», domandò sbadigliando, socchiuse gli occhi, guardando con sufficienza le figure che gli si stagliavano davanti e, solo quando percepì la situazione tesa, decise di provare a smorzare l'atmosfera. «E fatevele due risate ogni tanto», affermò avviandosi verso il frigorifero. La figlia, che era solita dedicargli qualche sorriso quando emetteva sentenze del genere, così distanti dai discorsi professionali che era solito intrattenere nelle telefonate di lavoro, decise di fuggire. «Devo andare in biblioteca», sussurrò, avviandosi verso la stanza per cambiarsi i vestiti, senza più udire le parole dei genitori. Mise una tuta per stare il più comoda possibile e si fissò allo specchio. «Certo che mi sono ridotta proprio male», sussurrò al suo riflesso, osservando gli occhi azzurri ammorbiditi in un'espressione assonnata e contornati dal nero del mascara, aveva le labbra screpolate e i capelli scuri ridotti a un cespuglio. Decise di raccoglierseli per curarsi almeno un po' e poi uscì di casa.

L'Isola Che Non C'èDove le storie prendono vita. Scoprilo ora