I tre ingegneri

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I tre ingegneri provenienti da facoltà ed atenei differenti, nell’estate del 2013, durante un convegno a Bologna, decisero di mettere insieme, viste le problematiche legate all’inquinamento, un progetto, l’ennesimo alla vista dei media, riguardante il tentativo di trovare pianeti abitabili, nuove fonti di energie, capaci di garantire un’ alternativa alla nostra, già all’epoca, malmessa Terra.

Loris Grasso, fu definito dai giornali, dai colleghi e dalle riviste di settore, come il visionario dai capelli rossi.

Si è laureato 110 e lode alla facoltà di Ingegneria meccanica di Catania nel 2010 e dopo due anni aveva conseguito la specialistica in progettazione ecosostenibile di impianti e macchine industriali. La sua idea era semplice, “Più grana e meno grane” un tipo molto pratico, questo di sicuro.

Il sognatore del trio era il dottor Vincenzo Di Gregorio, laureatosi in ingegneria elettronica addirittura con un anno di anticipo, al Politecnico di Torino,specializzato in Meccathronic Engeneering, con un master in robotica. Si dice fosse stato contattato addirittura dall’amministratore delegato Ferrari per entrare a far parte del team corse per la vecchia Formula 1, e leggenda vuole che all’incontro dopo aver letto la proposta, prese la tazza di caffè e la rovesciò volutamente sul contratto, affermando “Mi dispiace sprecare del buon caffè di qualità, per una proposta così scadente”

Infine il programmatore, il vero cervello nell’ombra. Il dottor Emanuele Projetto, ingegnere informatico dal 2011, hacker per passione dall’età di 6 anni. A 3 aveva costruito il suo primo computer, suo padre dice che iniziò prima a programmare e poi a parlare.

Anche lui laureato a Catania, e coinquilino del dottor Grasso.

I due non vivevano rapporti idilliaci, ma il rispetto era reciproco.

Emanuele spesso alle interviste raccontava “Ci facevamo dispetti a vicenda, a volte anche pesanti, ma non avevo paura di un ingegnerucolo da strapazzo, non avrebbe certo costruito macchine mortali per farmi del male, anche perché avrei cancellato tutti i progetti dal suo PC, ancor prima che potesse finirli”

Tre menti brillanti, con un unico scopo, quello di sovvertire le sorti di un pianeta alla deriva.

E questo si prefissarono, quel caldo giorno di luglio del 2013, quando a Bologna, durante una conferenza, decisero che sarebbe nata la Società spedizioni interplanetaria italiana.

Ero davvero affascinato dal leggere quelle storie di persone così brillanti, a cui non potevo neanche lontanamente paragonarmi. E mentre scendevo dall’aereo, non vi nascondo che un po’ di invidia l’ho provata.

Anche io avrei potuto diventare un famoso ingegnere con tanto di “dottor” scritto sulla porta dell’ufficio, invece ero lì pronto a lavorare per loro.

Presi l’autobus diretto alla zona Eur, dove si trovava il centro di reclutamento della società e dove si sarebbero svolte anche le visite mediche di tutti i candidati.

Eravamo più di diecimila, per un numero irrisorio di posti, appena dieci.

Ci divisero in cento gruppi da cento, ed ogni gruppo venne ispezionato da un team di medici e funzionari della società. 

I criteri di valutazione si basavano sullo svolgimento di tre prove più la presentazione di un portfolio di competenze che ogni candidato doveva portare in sede di valutazione.

Dalle poche chiacchiere che riuscì a scambiare con gli altri partecipanti, capìì fin da subito che il mio curriculum non era certo uno dei più appetibili per gli esaminatori. Avevo di fronte gente proveniente dalle migliori università europee, alcuni avevano conseguito la specialistica e in casi rari dottorati di ricerca in Giappone e Stati Uniti.

Io stavo ancora finendo il liceo.

Ma ero comunque entro i requisiti previsti, anzi il requisito previsto, ovvero la maggiore età.

Dopo un primo censimento dei presenti, ci trasferirono all’interno di tensostrutture, tutte organizzate per lettere e simboli,su un enorme terreno, che ha detta di un ragazzo friulano che avevo conosciuto pochi istanti prima,veniva utilizzato per le esercitazioni dei cosmonauti.

Dentro queste strutture ci venne consegnato un numero, il mio era l’ A42 e ci venne chiesto di aspettare.

Il tempo pareva non passare mai, l’orologio vi posso giurare che sembrò scorrere a ritroso di una trentina di secondi. Ma forse era solo la stanchezza e la tremenda fame che mi stavano logorando.

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