𝐗𝐈

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𝑾𝒐𝒐𝒚𝒐𝒖𝒏𝒈 

Mi sistemai con il busto voltato verso San, stringendomi nella felpa per attendere che iniziasse il discorso, incuriosito da cosa potesse presentarmi. Osservai il suo viso perdersi per qualche istante nei pensieri, concentrato a mettere in ordine le varie idee che gli giravano freneticamente in quella testa. Dovetti trattenere un sorriso a quei pensieri, riguardo a quanta confusione dovesse popolare la testa di quel ragazzo, forse meno della mia.
«Immagina un deserto. È facile. Facilissimo. Basta un orizzonte infinito. Tanta sabbia. Ed un bel cielo. Azzurro. Brillante. Passeggi nella sabbia morbida. C'è un bel vento. Fresco. Dietro una duna vedi un cubo. Quanto è grande? Di che materiale lo vedi?».
Iniziò in questo modo il discorso, senza premesse o quant'altro, semplicemente iniziò con un attacco diretto, spostando i suoi occhi scuri sul mio viso, concedendomi tutta la sua attenzione finalmente. Alle sue parole chiusi gli occhi per immaginare meglio la scena: «Ho una duna alle spalle ed una davanti di dimensioni medie, a qualche metro da me, mi pare che sia di vetro, ha gli angoli quasi distrutti a causa di vari colpi, mentre all'interno c'è una sfera ancora ben trasparente e protetta. Mi pare che sia su un metro e cinquanta di altezza.»
Iniziai a raccontare cosa vedevo nella mia mente stando attento anche ai dettagli, il mio punto di vista era esterno, quasi come se guardassi un video, non sentivo il vento sulla pelle, osservavo attentamente la sabbia muoversi in silenzio attorno a me, che andava a depositare ai piedi del cubo o delle dune.
«Continui a passeggiare nella sabbia, imbattendoti poco dopo in una scala, di che materiale e che dimensioni è?»
Soffiai una risata un po' confuso da come potesse centrare una scala, ma San mi riprese ridendo con un leggero pugnetto sul braccio. Sospirai girando a vuoto una mano prima di rispondere:
«É semplice, è un scala a pioli sui due metri di legno, ma i pioli sono composti da coltelli, quelli grandi da cucina.»
«Minchia, messo bene.» fu il commento diverto di San. Riaprii gli occhi guardandolo male mentre lui rideva per la mia reazione. La sua risata acuta riempì il silenzio attorno a noi. Per un istante potei udire solamente quel suo bellissimo suono che andava a coprire le poche macchine che ancora giravano per strada.
«Scusa, sto cercando di concentrarmi» lo ripresi fingendomi serio, ma la sua risata era contagiosa e non potei che finire a ridere pure io, chiudendo gli occhi per continuare quella "seduta"» .
«Ti lasci alle spalle la scala quando vedi arrivare verso di te un cavallo. Com'è?»,
«No, scusa ma in che senso un cavallo?» esclamai riaprendo gli occhi un momento, allibito di cosa mi tirasse fuori. Ma non riuscì a guardare il viso del ragazzo, poiché quest'ultimo mi coprì gli occhi con una mano, facendomi tornare appoggiato alla panchina e mi zittì con un verso duro e diretto che mi fece ridere assieme a lui. Ci misi qualche secondo in più a riprendere il disegno che avevo in testa.
«É uno stallone nero, è abbastanza tranquillo ed è lontano da tutto il resto.» Alzai le spalle a fine spiegazione, concentrato maggiormente sulle dita affusolate del ragazzo sul mio viso. Le  dita accarezzavano così gentilmente il mio zigomo con le loro punte, appoggiate totalmente ai miei occhi, che ero catturato totalmente dal suo tocco velato.
«Il vento si fa sempre più forte. È un attimo ed intorno a te non vedi più il cavallo, né la scala né il cubo. È una tempesta di sabbia. Poi il vento si placa. Torna a soffiare leggero. La sabbia svanisce ed il cielo torna brillante. Delle cose che ti erano apparse, una soltanto è rimasta. Qual'è?».
Non fu una domanda semplice quella, la scena che mi comparve negli occhi fu totalmente distaccata da me e dopo passata la tempesta non rimase nulla, la cosa mi provocò un senso di solitudine interiore che si aprì nello stomaco come una voragine pronta ad inghiottire qualunque cosa provasse a colmarla, andando a distruggere tutti quei piccoli tentativi per fermarla.
Era una situazione familiare.
I miei muscoli sul viso si tesero al minimo pizzichio sul naso, quel vuoto interiore mi provocò l'inizio di un pianto che le gentili dita di San placarono subito con una leggera carezza affianco all'occhio, raccogliendo quella lacrima che era riuscita a liberarsi dai miei sforzi.
«Nulla?», mi domandò il moro con una voce gentile e piena di una strana compassione.
«Nulla.»
Risposi io in un sussurro, lasciando lentamente sfuggire un sospiro dalle mie labbra secche, sentendomi così abbandonato dalla mia stessa anima.

Egeo WoosanDove le storie prendono vita. Scoprilo ora