24. Beyond

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«Ragazzi, io esco un po' fuori. Ce la fate a non uccidervi?». I due si scambiano un'occhiata di intesa e poi annuiscono silenziosamente, sorridendomi.
Sono diventati di poche parole, tutt' a un tratto.

Scuoto la testa ripetutamente, prima di voltarmi e muovere qualche passo verso l'esterno. Una ventata di aria gelida, perpetrata fino al midollo osseo, mi ricorda che ho dimenticato di indossare il mio cappotto e, anche se vorrei ignorarla, alla fine decido di rientrare per riprendermelo.

«Già finita, la passeggiata?». Una voce sconosciuta arresta la mia camminata verso il tavolo e per poco non vado a sbattere contro una colonna, tanto è lo sconvolgimento causato da quelle parole.
Mi volto con lentezza verso la direzione da cui l'ho sentita arrivare e mi stupisco di vedere l'anziano signore che Daniel aveva indicato qualche minuto fa. Boccheggio per un po', incapace di aggiungere qualcosa, poi mi guardo intorno, cercando l'ipotetico interlocutore di quest'uomo.

Non c'è nessuno. Sta davvero parlando con me?

«Ehm, ha bisogno di aiuto, signore?». Mi ciondolo lievemente da una gamba all'altra, aspettando di sentire una sua risposta. L'uomo però continua a scorrazzare per le strade dei suoi pensieri senza permettermi di capire le sue intenzioni e ho quasi preso la decisione di andarmene, quando finalmente comincia a parlare: «Oh no, cara» dice soltanto. Fa una breve pausa e se non fossi a conoscenza della sua cecità probabilmente penserei di avere a che fare con un attento osservatore.

«Tu invece hai decisamente bisogno di un otorino» sentenzia però, subito dopo, mettendo in mostra una fila di denti ormai non più dritta e splendente.
«Come scusi?». Il tono della mia voce lascia trasparire una punta di fastidio dalle mie parole e mi sforzo con tutta me stessa, mentre le pronuncio, per far sì che si noti il meno possibile.

«Hai visto? Ho proprio ragione, allora». Le sue labbra si incurvano maggiormente e non posso fare a meno di sorridere anch'io, osservandolo.

«No, signore» biascico, ancora con il sorriso stampato sul volto, dopo aver ricordato la sua prima domanda: «Non sono ancora andata a passeggiare. Ho dimenticato il cappotto e sono rientrata a prenderlo, visto che fuori fa freddo». Lascio scorrere una mano lungo tutto il tessuto della maglietta che avvolge la mia spalla destra, fino ad arrivare a sfiorare la pelle nuda dell'avambraccio, il quale, all'istante, si riempie di brividi.

«Da quanto tempo lavori qui?». Ignora completamente la mia risposta, sfoggiando una disinvoltura a dir poco irritante. Sto per ribattere quando improvvisamente una domanda comincia ad insinuarsi, con cautela, nella mia mente:

«Come fa lei a sapere che lavoro qui?».

Sorride vittorioso, come se avesse centrato in pieno l'obiettivo che si era preposto solo qualche minuto prima, probabilmente, formulando quella domanda.

«Non è mica la prima volta che vengo qui, cara», si giustifica, stringendo un po' più forte il bastone che tiene fermo tra le mani e puntando leggermente in avanti la sua estremità superiore. «Ascolto la tua voce con una certa assiduità, ultimamente. Dovevi essere per forza una dipendente» ipotizza ancora, scrollando lievemente le spalle.

«Sì, ha ragione» ammetto compiaciuta. «Lavoro qui da un po' ma non l'avevo mai notata. Sa, con tutti i clienti e il caos è davvero difficile soffermarsi sulle singole persone». Gli sorrido semplicemente e davvero non riesco a spiegarmi perché io continui a farlo, dato che, quest'uomo, neanche può vederlo, il mio sorriso. Continuo a non osservarlo, per non farlo sentire in imbarazzo ma lui probabilmente non se ne accorgerebbe nemmeno, se lo facessi. Mi fermo per un istante. Ma no, non fisicamente. Il mio corpo recepisce alla perfezione i comandi dettatigli dal cervello e, anche se un po' impacciato, li esegue diligentemente. Si protende di poco in avanti, dondolandosi sui talloni e lascia ricadere gli arti superiori sui fianchi, proprio dopo averli impegnati nel sistemare una ciocca di capelli sfuggita alla morbida treccia in cui quelli più mansueti si sono lasciati raccogliere.
La mia mente invece è in tutt'altro luogo. Ragiona sul fatto che probabilmente non riuscirà mai a fuggire dalla quotidianità. E ogni volta che le sarà sembrato anche solo per un momento di aver trovato il suo equilibrio, si renderà conto che, in realtà, avrà solo firmato il contratto per l'edificazione di una nuove routine. Diversa. Ma pur sempre tale.
E mi chiedo come sia possibile fuggire da essa, mi domando se ci sia davvero anche solo una speranza di poter vivere lontano da una routine che si rivelerà sempre oltremodo noiosa. Tuttavia non posso fare a meno di constatare che probabilmente non potremo mai oltrepassarlo, quel confine. Non potremo mai neanche pensare di andare oltre ciò che vediamo, oltre quel muro così alto che pone dinanzi ai nostri occhi dubbi e incertezze. E tanto lo sappiamo, che in fondo saremo per sempre incatenati a quella parte di noi che si limita ad osservare soltanto con gli occhi. Lo sappiamo persino noi, che alla fine non potremo mai impedirle di maturare dentro di sé la convinzione di valere più di tutto il resto.

Fino alle estremità della TerraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora