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«Attento ché scotta».

Tendo il braccio verso Daniel mentre gli porgo una tazza piena di caffè bollente appena colato fuori dalla macchinetta. Appoggio la mia sul tavolo, aspettando che si raffreddi almeno un po' e nel frattempo soffio delicatamente sulla sua superficie. Osservo con poca attenzione le lievi onde che senza fretta si allontanano dal loro punto d'origine e le immagino rassegnate all'idea di non poter raggiungere la loro destinazione finale, come se il loro scopo fosse proprio quello di non arrivare al traguardo. Come se non ce l'avessero proprio, una meta.

«Grazie, Tabitha». La sua voce cauta incurva le mie labbra in un semplice sorriso e i miei occhi si spostano verso il basso, attenti ad evitare il suo sguardo. Avvicino la tazza alla bocca con l'intenzione di bere un sorso del suo contenuto ma, quando una gocciolina di caffè ancora troppo bollente sfiora la mia pelle, convengo che forse è meglio aspettare ancora un po'.

«Quindi? A cosa devo l'onore di poterti offrire qualcosa nel luogo in cui lavoro?» comicio a dire, senza nascondere il tono leggero della mia voce.

«Niente di troppo importante» banalizza lui, con un gesto frivolo della mano «Anche solo al fatto di poter parlare tranquillamente senza dover pensare alla campanella che ringhia sempre nel momento sbagliato» ride.

Lo imito mentre sorseggia con scarsa eleganza un po' di caffè e, per un istante, l'idea di alzarmi e mettermi al lavoro diventa quasi allettante, soprattutto nel momento in cui vedo il mio capo avvicinarsi in modo sospetto. In realtà, è già sospetto il fatto che sia qui, in un qualsiasi giorno infrasettimanale.

Lancio un'occhiata al grande orologio di legno intagliato posto sulla parete dietro il bancone e noto, con sollievo, che mancano ancora venti minuti all'inizio del mio turno.

«Importante o no dovrai sbrigarti Dan. Non voglio assolutamente che tu vada via ma comunque non ho tutto il tempo di questo mondo» gli ricordo, indicando quello stesso orologio su cui prima avevo puntato lo sguardo.

«Oh guarda un po',» esclamo poco dopo, «c'è il signor Fox, proprio laggiù!». Mi alzo velocemente, cercando di mettere a fuoco, con più sicurezza, la sagoma ricurva dell'anziano signore che si muove distrattamente tra i tavoli del locale. Si accomoda in fondo, nel punto più isolato, quasi a voler esprimere la sua volontà di non essere disturbato. Tipico del signor Fox, penso tra me e me.

«Va bene, sputa il rospo e poi andiamo a salutarlo» ordino a Daniel, sedendomi nuovamente di fronte a lui.

Daniel ride, buttando giù l'ultimo sorso di caffè: «Se proprio insisti».

***

Il signor Fox borbotta qualcosa di incomprensbile, in risposta al nostro saluto. Lo vedo guardarsi intorno con fare circospetto, nonostante sia più che certa di essere riuscita a farmi riconoscere.
«Va tutto bene?» domando cauta.
Non risponde. Continua semplicemente ad osservare ciò che lo circonda, come se la cecità non fosse un ostacolo tanto grande da poterlo fermare. Ricordo immediatamente che, sin dal nostro primo incontro, il suo modo di gestire la disabilità mi aveva oltremodo sorpresa e ciò mi aveva portato a legarmi a lui in modo particolare, se si pensa al fatto che quell'anziano e burbero signore fosse comunque uno sconosciuto, per me.

C'è qualcosa di insolito però, nel suo essere così stranamente disorientato.

«Signor Fox sta bene? Sono io, Tabitha». Mi piazzo dinanzi a lui, posando le mie dita delicate sulla sua mano ruvida, ancora impegnata a sorreggere il bastone. In quell'istante smette di divincolarsi e torna a puntare i suoi occhi - sempre protetti dalle lenti degli occhiali da sole - verso il vuoto. Si posa una mano sul petto, poi sulla testa e ansima respirando a fatica. Corrruga la fronte e per un momento temo di vederlo cadere dalla sedia, sopraffatto da un malore.

Fino alle estremità della TerraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora